Avendo conseguito la laurea in Medicina nel lontano 1962, ed avendo successivamente percorso tutti i gradini della carriera accademica, ho avuto modo di assistere alla evoluzione della figura del Clinico Universitario nell’arco di oltre mezzo secolo, dall’epoca in cui esistevano i Baroni ed i Maestri, all’epoca attuale, in cui non esistono più né gli uni né gli altri. Credo di poter illustrare con obiettività i cambiamenti che sono avvenuti, senza con questo esprimere alcun giudizio di merito. I più vecchi giudichino se le mie parole corrispondono alla verità; i più giovani apprendano qual’era lo stato della medicina accademica in tempi lontani.
Negli anni ’60 del secolo trascorso di baroni in giro ce n’erano molti. Si può dire che lo fossero un pò tutti quelli che dirigevano un Istituto nel contesto di un Policlinico Universitario. Lo consentivano l’assetto organizzativo della sanità pubblica e le leggi vigenti. Si cominci col dire che le conoscenze mediche erano alquanto limitate e di conseguenza esistevano pochi reparti, con prevalenza di quelli di tipo generalistico. Prendendo ad esempio la Medicina Interna, in quasi tutti gli Atenei esistevano soltanto due cattedre e due istituti, quelli di Clinica e di Patologia Medica, grandi contenitori cui afferivano le patologie dei più vari organi e sistemi. Esistevano quindi soltanto due clinici e non la miriade degli specialisti e superspecialisti dei tempi d’oggi.
Le amministrazioni ospedaliere non mettevano becco nella gestione degli Istituti universitari, peraltro pressoché autonomi sotto il profilo gestionale (ad es. con proprio laboratorio e propria radiologia). Le rette che gli Enti mutualistici versavano per ogni loro assistito finivano in buona parte nelle tasche del Direttore. Vigeva la regola del 4:2:1. In parole povere, la somma veniva suddivisa in sette quote, quattro delle quali destinate al Direttore. Se (poniamo) gli aiuti erano due, ad essi spettava una quota cadauno; se gli assistenti erano sei, ad ognuno spettava un sesto di una parte. Fate voi i conti e troverete che con l’esempio riportato al direttore andava il 57%, ad un aiuto il 14% e ad un assistente lo 2.33% dell’intera contribuzione. Ai cospicui introiti derivanti dalle degenze andavano a sommarsi quelli delle prestazioni ambulatoriali, che potevano raggiungere cifre ragguardevoli. A titolo di esempio, il Centro Antidiabetico della Clinica Medica di Bologna, dove sono stato Assistente Volontario per ben 8 anni, produceva un incasso annuale di 90 milioni delle vecchie lire, che negli anni ’60 era l’equivalente del costo di quattro o cinque appartamenti. Altra fonte di ricchezza per i baroni era l’attività libero- professionale, cospicua per gli internisti di grido, ma ancor più per i chirurghi, che dal taglio di una pancia potevano ricavare quel che un internista guadagnava in 10 ore di ambulatorio.
Al potere economico si sommava quello accademico: i baroni gestivano le scuole di specializzazione, molto richieste in una fase storica in cui di specialisti ce n’erano ben pochi. Essi inoltre avevano la possibilità di attribuire il prestigioso titolo di Libero Docente a coloro che rimanevano per un certo numero di anni negli Istituti universitari prestando gratuitamente la loro opera. In tal modo i baroni potevano disporre di una formidabile forza lavoro, numerosa, competente e motivata. Altro punto di forza del potere baronale era la possibilità di gestire a loro piacimento i primariati ospedalieri della disciplina, che si rendevano liberi, o venivano istituiti ex-novo nelle città appartenenti alla loro area di influenza. Le amministrazioni locali non avevano voce in capitolo e non di rado erano gli stessi presidenti degli ospedali a recarsi dal barone di turno a che dotasse il loro nosocomio di un bravo primario. Insomma, la figura del barone era caratterizzata da un considerevole potere economico, politico e gestionale, cui si associava una buona dose di alterigia e spesso di arroganza, con l’ulteriore aggravante di una decisa propensione al nepotismo. Bisogna comunque riconoscere ai baroni dell’epoca alcuni aspetti positivi, quali il valore professionale, il rispetto abituale della parola data (a suggello di un reciproco patto con gli allievi), ed il riconoscimento del merito dei più bravi, per lo stesso motivo di cui sopra, ma non escludo anche per vanagloria, e cioè per poter vantarsi di essere a capo di una eccellente scuola medica.
Altro discorso quando si parla di Maestri. Di questi ne giravano molti di meno. Per dir meglio, molti venivano omaggiati con questo termine, ma soltanto pochi lo erano per davvero. Per essere un vero Maestro ci volevano ben altre doti. Lo erano, ad esempio, i clinici capaci di elaborare idee innovative nella loro specifica disciplina, o di prevederne gli orizzonti ed i futuri sviluppi, o dotati di una superiore cultura, assai spesso debordante dal campo scientifico e sconfinante nella letteratura e nell’arte, ed infine quelli dotati di considerevole carisma ed acume clinico o di forbita e suadente oratoria. Per quanto io possa riferire per diretta conoscenza fu un grande Maestro, oltre che un grande barone, Luigi Condorelli, Clinico Medico di Roma. La sua sfera di influenza accademica copriva anche i tre atenei siciliani di Palermo, Messina e Catania, quello di Bari, ed in parte quello partenopeo. Questo immenso potere accademico gli consentì di sistemare una falange di primari ospedalieri, e di mettere in cattedra uno stuolo di allievi, tuttavia quasi tutti di modesta caratura (alcuni men che modesti), alla stregua di un moderno Caligola, che si vantava di aver nominato senatore il suo cavallo: il che torna certamente a suo demerito, e testimonia la sua tracotanza, seppur con la giustificazione che quelli aveva sottomano e non poteva certamente cavar sangue dalle rape. Ma Luigi Condorelli fu anche Maestro. Lo fu per le sue frequentazioni internazionali in un’epoca in cui era raro che qualcuno mettesse il naso fuori casa, per aver applicato con convinzione il metodo sperimentale, eseguendo personalmente studi sugli animali fino ad età avanzata, e per aver portato significativi progressi in vari campi della cardiologia, come ad esempio le sindromi mediastiniche, lo scompenso cardiaco e l’angina pectoris. Un grande Maestro fu anche Domenico Campanacci, Patologo Medico di Bologna, fine semeiologo, che intuì per primo la evoluzione tecnologica della medicina e quindi il nascere delle discipline specialistiche, alle quali avviò tutti i suoi allievi, dimostrando al contempo altruismo e modestia, accettando cioè che i suoi allievi in specifici settori ne sapessero molto di più di lui. Fu un Maestro anche Antonio Lunedei, Patologo Medico di Firenze, acutissimo osservatore, dotato di fervida fantasia, da cui scaturirono idee brillanti ed avveniristiche sulle sindromi diencefaliche e sulla importanza della flogosi in molteplici patologie internistiche. Accanto a questi giganti della medicina, che a vario titolo incrociai durante il periodo della mia formazione, devo dire che in certo qual modo Maestro fu anche il mio capo, il professor Sergio Lenzi, per le sue sopraffine capacità semeiologiche e diagnostiche, per la sacralità d’esecuzione dell’atto clinico, e per la brillante oratoria. Fu anche un precursore, avendo intuito l’importanza dell’iperaldosteronismo e dell’attivazione del sistema adrenergico nella patogenesi dello scompenso cardiaco, senza tuttavia presumere, come oltre venti anni dopo avvenne, che il blocco di questi sistemi endocrini avrebbe avuto un rilevante impatto terapeutico. Se dunque i baroni si distinguevano per l’uso tracotante e spocchioso del potere accademico e professionale, cifre distintive dei Maestri erano l’originalità del pensiero, il carisma, la cultura, cui si associava non di rado uno stile di vita profondamente etico, anche se talvolta con qualche nota di eccentricità.
Le figure dei baroni e dei maestri cominciarono a scolorire ai miei occhi a partire dagli anni ’70. E’ pur vero che entrando nella maturità si diventa più critici e meno facilmente suggestionabili, spesso più supponenti e meno disposti a riconoscere la superiorità degli altri; ma è altrettanto vero che molte cose mutarono così rapidamente da portare alla scomparsa sia dei baroni che dei maestri. Un primo radicale cambiamento avvenne a causa del prepotente ingresso della politica nella gestione della sanità pubblica. Negli anni ’70 il progresso tecnologico, l’espandersi delle conoscenze, il proliferare delle discipline specialistiche e sub specialistiche, con la conseguente crescita esponenziale delle strutture ospedaliere (e sanitarie in generale) resero evidente agli occhi dei politici che in quel settore cominciavano a girare tanti soldi, e si concentrava molto potere. La possibilità di controllare le assunzioni del personale, e quella di gestire appalti milionari, rendevano gli ospedali una importante fonte di consenso, oltre che di arricchimento personale: una mucca da mungere e quindi da sottrarre rapidamente all’influenza degli organi accademici. I professori universitari furono gradualmente estromessi dalle commissioni di concorso per l’assunzione dei nuovi primari ed in genere del personale ospedaliero; i primari ospedalieri di ruolo, che per qualche tempo ebbero un minimo di voce in capitolo, furono poi anch’essi estromessi, ed ormai da tempo sono stati relegati ad un patetico ruolo ancillare: quello di redigere semplicemente il “profilo” dei candidati, sulla cui lista il manager (anch’esso soggetto ad un controllo politico superiore) effettua poi la scelta definitiva.
Il progresso della tecnologia ha relegato in secondo piano le conoscenze teoriche. L’arte della semeiotica e del ragionamento diagnostico è diventata merce fuori mercato e quindi definitivamente obsoleta, soppiantata da attrezzature sofisticate, che consentono di giungere a diagnosi sempre più precise e di effettuare interventi terapeutici impensabili nel passato. Il medico famoso dei tempi moderni non è più il grande clinico, eccellente nella observatio et ratio, bensì il fortunato possessore di uno strumento d’avanguardia, oppure il depositario di una particolare manualità in uno specifico sub-settore della medicina. Gli esempi potrebbero essere infiniti, per cui non vale la pena citarne alcuno. Ad un primario non viene più richiesta cultura, bensì capacità manageriale, ed i migliori appaiono quelli che, per appartenenza politica od affiliazione ad associazioni che contano, riescono a procacciarsi le macchine migliori, il reparto più elegante ed il personale medico, tecnico ed ausiliario più qualificato.
D’altra parte, il progresso delle conoscenze e la graduale trasformazione della medicina da arte a scienza ha portato ad una codificazione dei comportamenti da osservare a fronte di specifiche situazioni cliniche. Ne sono scaturite le cosiddette Linee Guida, che i medici sono tenuti ad osservare, non solo perché esse indicano la strategia migliore da adottare, ma anche per il concreto timore di ritorsioni medico-legali in caso di mancata applicazione. All’autorità del clinico di un tempo (il famoso “ipse dixit”) si è sostituita l’autorità delle Linee Guida stilate dalle Associazioni Scientifiche, spesso non esenti da distorsioni o forzature dettate da BigPharma o dalle leggi del mercato.
La moltiplicazione dei posti di apicalità ha comportato una frammentazione del potere in tanti minuscoli segmenti: per esemplificare, ad una Clinica Medica di un tempo, con duecento letti, tutte le specialità incorporate ed un solo direttore, si contrappongono oggi diecine di unità operative, in cui prevalgono quelle di tipo specialistico o sub specialistico, quasi sempre designate pomposamente con l’epiteto di Centri di alta specializzazione o di eccellenza. La figura del barone è quindi definitivamente scomparsa ed al massimo si può parlare di manager ben inseriti nei gangli della politica, e quindi anch’essi con condizionato potere.
Spostandoci sul versante accademico, le riforme universitarie che si sono succedute nel tempo hanno abbassato notevolmente la caratura della classe docente. Tramontata da tempo l’università di elite, e subentrata l’università di massa, anche il corpo docente si è livellato verso il basso. Come scrisse un arguto giornalista, “visto che nel calcio e nella lirica non ci sono abbastanza Totti e Pavarotti per tutti gli stadi e tutti i teatri, diventa fatale che in alcuni si esibiscano dei brocchi, reclutati da un compiacente impresario di turno”. E nel caso specifico l’impresario di turno può essere riportato ai nuovi sistemi di selezione e reclutamento della classe docente, tanto garantisti da consentire agli atenei l’assegnazione di una qualsivoglia cattedra ad un qualsivoglia personaggio, anche se di modestissimo valore. William Arthur Ward, un noto editorialista americano, ebbe a scrivere: “The mediocre teacher tells. The good teacher explains. The superior teacher demonstrates. The great teacher inspires.” Si potrebbe aggiungere che the modern teacher “legge” (le diapositive naturalmente e per di più sempre quelle). Se poi andiamo a considerare i “maestri di vita” … beh … da quello che si apprende dai giornali forse è meglio non approfondire.
Questo lo stato dell’arte, a prescindere da giudizi di merito che sarebbero assolutamente fuori luogo, perché le condizioni storiche sono radicalmente mutate. In entrambe le situazioni, quelle di un tempo e quelle d’oggi, erano e sono presenti molte inqualificabili storture. Tuttavia (e questa è una mia personale opinione), mentre in passato depositari del potere erano personaggi arroganti quanto si vuole, ma comunque di un certo livello culturale, oggi lo sono politici ed amministratori ingordi, corrotti e soprattutto ignoranti.
Ho detto in precedenza che oggi non esistono più né i baroni né i maestri. Un giudizio drastico, poiché qualche Maestro in giro forse c’è ancora. Ed a tal proposito vorrei concludere questo scritto con un personale omaggio a quel grande che fu il Professor Francesco Mario Antonini, un vero pioniere nel campo della Gerontologia e Geriatria. Negli anni ’50 si trattava di una disciplina al suo esordio culturale, ed Antonini capì tutto fin dall’inizio. Capì che essa doveva riguardare l’intensività delle cure, ma ancor di più la cronicità e la perdita dell’autosufficienza, e che l’assistenza si doveva articolare in una rete di servizi differenziati, diretti a soddisfare le molteplici esigenze dell’anziano malato. Non ostacolato da illuminati amministratori (forse anche distratti o poco sgamati) riuscì ad istituire nel policlinico di Careggi una Unità Coronarica tra le prime in Italia, affidò ad un valido allievo (Alberto Baroni) un innovativo servizio di riabilitazione e riattivazione geriatrica (I Fraticini), istruì un altro allievo (Antonio Bavazzano) alla creazione nell’area pratese di un efficace sistema integrato di assistenza, basato su cure domiciliari, intermedie ed ospedaliere. Tutto questo in tempi in cui di Geriatria si cominciava appena a parlare. Accanto a ciò Antonini comprese che progressi conoscitivi con ricadute pratiche si potevano conseguire attraverso i grandi studi epidemiologici di tipo longitudinale, ed avviò a questa disciplina il migliore dei suoi allievi, Luigi Ferrucci, che sarebbe diventato leader mondiale nel settore, fino ad assumere la direzione del Baltimore Longitudinal Aging Study e poi del National Institute of Aging. Ma l’intuizione maggiore la ebbe vaticinando che ogni tentativo di una efficace assistenza geriatrica sul territorio nazionale si sarebbe fatalmente infranto contro le incapacità della politica e l’ingordigia degli affaristi, che avrebbero visto il problema della vecchiaia come una ennesima occasione di guadagno. Inventò così la Geragogia, cioè l’educazione al buon invecchiamento, insegnando che ognuno (se vuole) può costruirsi una buona vecchiaia. A questi meriti di tipo scientifico e sociale, Francesco Mario Antonini associava una accattivante oratoria ed una profonda cultura umanistica, di cui diede testimonianza con la sua opera “L’età dei capolavori”, documentando quanto innovative potessero essere le capacità espressive dei grandi artisti nella fase declinante della loro vita. Gulliver nel paese dei lillipuziani, si tenne sempre lontano dalle beghe del mondo accademico, snobbandone i poco edificanti inciuci. Per tutto questo io credo che Francesco Mario Antonini sia uno dei pochi moderni, tra quelli da me conosciuti, per cui la definizione di Maestro appare appropriata.