Da alcuni ricordato come poeta della serenità classica e dell’equilibrio dei sentimenti, Orazio in realtà fu un uomo ansioso, malinconico, forse a tratti depresso, e da ciò nasce l’angoscia sfibrante della noia, sulla quale si innesta il senso cupo della morte. Se non vi è alternativa alla morte (l’unica cosa certa – ultima linea rerum –), bisogna pur trovare antidoti e compensi, quali ad esempio la convinta adesione alla semplicità del vivere, al rifiuto del superfluo, al rifuggire dagli eccessi e dall’apparire, al preferire la fresca aria mattutina della campagna e le verdure dell’orto all’aria greve della suburra ed ai cibi elaborati delle mense dei principi: una filosofia spicciola, quella dei giorni feriali, la famosa filosofia del carpe diem. Con la consapevolezza, tuttavia, che si tratta di un compenso provvisorio, un punto di equilibrio instabile e precario. Orazio è convinto che non ci è dato nulla che rimanga se non nella memoria. Ma la memoria ha il sostanziale difetto di farci riflettere su un passato immodificabile: mantiene il piacere delle gioie trascorse ma ha in se il dato negativo del rimpianto.
Perché Orazio a distanza di duemila anni continua a parlare con noi? Semplice: pur confidando nei poteri salvifici della scienza, siamo consapevoli che essa nulla può di fronte all’ultima “linea delle cose”. Cerchiamo di rimuoverla, di occultarla, di seppellirla sul fondo della coscienza, questa ultima linea rerum, ma senza successo. Ci impegniamo allora in un frenetico attivismo, per distrarci, per dimenticare, ma a differenza d’Orazio non disponiamo di strumenti idonei di compenso. Antidepressivi ed ansiolitici non hanno lo stesso potere lenitivo del carpe diem.
Vale dunque la pena di rileggerlo questo eccelso poeta, riproponendo alcune odi che fanno maggiormente riflettere, come ad esempio quella a Sestio, cui Orazio ricorda che con il giungere della primavera è saggio festeggiare il risveglio della natura, poiché non è lontano il giorno in cui bisognerà entrare nella casa degli Inferi; o quella a Leuconoe, giovane ed inesperta fanciulla, cui Orazio rammenta la fugacità del tempo e suggerisce di “cogliere l’attimo”; o quella a Grosfo, che si bea delle sue ricchezze e vive nel lusso, ma non per questo è più felice del poeta , che in sorte ha avuto solo un campicello, ma in compenso il dono sublime della poesia.
Tradurre Orazio, orafo della parola, insostituibile nella sua posizione e nel suo contesto, essenziale e densa di un significato proprio, è impossibile. Lo si capisce anche visivamente considerando quante più parole sia necessario adoperare in una traduzione non letterale ma di senso e di atmosfera. E’ quindi lapalissiano che a confronto dell’originale la traduzione è una “ciofeca” (bevanda post-bellica di un simil-caffè fatto coi fondi dei caffè precedenti, d’orzo per giunta), ma pur sempre meglio di niente per scaldare un po’ il cuore, come la ciofeca scaldava il pancino. E quindi chi conosce il latino si goda l’originale, chi non lo conosce si accontenti della ciofeca.
I,4 – A Sestio
Solvitur acris hiems grata vice veris et Favoni trahuntque siccas machinae carinas, ac neque iam stabulis gaudet pecus aut arator igni nec prata canis albicant pruinis.
Iam Cytherea choros ducit Venus imminente luna iunctaeque Nymphis Gratiae decentes alterno terram quatiunt pede, dum gravis Cyclopum Volcanus ardens visit officinas.
Nunc decet aut viridi nitidum caput impedire myrto aut flore, terrae quem ferunt solutae; nunc et in umbrosis Fauno decet immolare lucis, seu poscat agna sive malit haedo.
Pallida Mors aequo pulsat pede pauperum tabernas regumque turris. O beate Sesti, vitae summa brevis spem nos vetat inchoare longam. Iam te premet nox fabulaeque Manes et domus exilis Plutonia: quo simul mearis, nec regna vini sortiere talis, nec tenerum Lycidan mirabere, quo calet iuventus nunc omnis et mox virgines tepebunt.
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Si scioglie il gelo dell’inverno al soffio della primavera, gli argani spingono verso il mare le barche in secca, il gregge più non gode il caldo dell’ovile, il contadino del focolare, ed i campi più non biancheggiano pallidi di brina.
Al chiarore sospeso della luna Venere conduce le danze, e le Ninfe e le Grazie leggiadre battono la terra con alterno piede mentre Vulcano osserva tra le fiamme il faticoso lavoro dei Ciclopi.
Ora è tempo di cingere il capo lustro d’unguenti Con un serto di mirto verde O con i fiori che sbocciano dalla terra dischiusa. Ora è tempo di immolare a Fauno in un bosco ombroso una agnella od un capretto se lo preferisce.
La pallida Morte bussa equanime ai tuguri dei poveri ed alle torri dei principi. O felice Sestio, la brevità della vita ci vieta di nutrire una lunga speranza. Già ti son vicini la notte e l’anime dei morti e la diafana casa di Plutone: quando vi entrerai, non t’avverrà per sorte d’essere eletto signore del convito né potrai ammirare il tenero Licida, per cui adesso si infiammano i giovani e tra non molto sospireranno anche le vergini. |
I,9 – A Taliarco
Vides ut alta stet nive candidum Soracte, nec iam sustinent onus Silvae laborantes geluque Flumina constiterint acuto.
Dissolve frigus ligna super foco Large reponens atque benignius Deprome quadrimum Sabina, o Taliarche, merum diota.
Permitte divis cetera, qui simul Stravere ventos aequore fervido Deproeliantis, nec cupressi Nec veteres agitantur orni.
Quid sit futurum cras fugere quaerere et Quem fors dierum cumque debit lucro Adpone, nec dulcis amores Sperne, puer, neque tu corea, donec virenti canizie abest morosa. Nunc et Campus et areae lenesque sub noctem susurri composite repetantur hora, nunc et latentis proditor intumo gratus puellae risus ab angulo pignusque dereptum lacertis aut digito male pertinaci. |
Guarda com’è bianco di neve il Soratte, ed i rami delle selve che si piegano affaticati sotto il peso ed i fiumi rappresi dall’intenso gelo.
Scaccia il freddo, Taliarco, metti molta legna al focolare, e versa in abbondanza vino vecchio da un’anfora sabina.
Lascia il resto agli dei, ora che si placano i venti sul mare in burrasca, né più si agitano le chiome dei cipressi o dei frassini cadenti.
Quale sia il futuro domani non chiedere E vivi come un dono ogni giornata, Quale che sia, la sorte ti conceda, né disprezzare, ragazzo, i dolci amori e le danze finchè lontana è la vecchiaia dalla tua verde età. Ora ti chiamino i giochi nell’arena e si ripetano nella notte i teneri sussurri, il dolce riso che ti rivela l’angolo segreto dove si nasconde il tuo amore ed il monile che le togli dal braccio o da un dito che resiste appena. |
I, 11 – A Leuconoe
Tu ne quaesieris, scire nefas, quem mihi, quem tibi Finem di dederint, Leuconoe, nec Babylonios Temptaris numeros. Ut melius quicquid erit pati,
Seu pluris hiemes seu tribuit Iuppiter ultimam, Quae nun oppositis debilitate pumicibus mare Tyrrhenum: sapias, vina liques et spatio brevi Spem longam reseces. Dum loquimur, fugerit invida Aetas: carpe diem, quam minimum credula postero.
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Tu non chiedere – non è dato saperlo – qual destino gli dei abbiano assegnato a te ed a me, Leuconoe, né lasciarti tentare dagli indovini.
E’ meglio accettare la sorte che ci attende sia che Giove ci conceda molti inverni, sia che sia questo l’ultimo che ora sferza le scogliere del mare Tirreno. Sii saggia, filtra i vini, la breve durata della vita impedisce di coltivare una lunga speranza. Mentre parliamo, il tempo invidioso è già fuggito. Godi il presente Meno che puoi fidando nel domani.
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I,25 – A Lidia
Parcius iunctas quatiunt fenestras Iactibus crebris iuvenes protervi, Nec tibi somnos adimunt amatque Ianua limen, Quae prius multum facilis movebat Cardines. Audis minus et minus iam: “Me tuo longas pereunte noctes, Lydia, dormis?”
Invicem moechos anus arrogantis Flebis in solo levis angiportu, Thracio bacchante magis Sub interlunio vento, cum tibi flagrans amor et libido, quae solet matres furiare equorum, saeviet circa iecur ulcerosum non sine questu, laeta quod pubes hedera virenti gaudeat pulla magis atque myrto, aridas frondes hiemis sodali dedicet Euro. |
Sempre di meno giovani protervi Lanciano sassi alle tue finestre, né ti rubano il sonno. E restano chiusi i battenti della porta che prima scivolavano facilmente sui cardini. Ormai meno, sempre meno, odi: “Tu dormi, Lidia, mentre io mi consumo Inquieto nella notte?”
In un vicolo deserto piangerai anche tu vecchia e derisa dagli amanti, quando il vento di Tracia urla forte nelle notti senza luna, ed il fuoco del desiderio, la libidine che squassa le cavalle, strazierà il tuo ventre strappandoti un lamento, mentre i giovani preferiranno lieti la verde edera ed il mirto bruno, e getteranno nell’Ebro, amico dell’inverno, le foglie secche. |
II,14 – A Postumo
Eheu fugaces, Postume, Postume, labuntur anni nec pietas moram rugis et instanti senectae adferet indomitae que morti,
non, si trecenis quotquot eunt dies, amice, places inlacrimabilem Plutona tauris, qui ter amplum Geryonen Tityonque tristi Compisci unda, scilicet omnibus Quicumque terrae munere vescimur Enaviganda, sive reges Sive inopes erimus coloni.
Frustra cruento Marte carebimus Fractisque rauci fluctibus Hadriae, frustra per autumnos nocentem corporibus meruemus Austrum.
Visendus ater flumine languido Cocyto errans et Danai genus Infame damnatusque longi Sisyphus Aeolides laboris.
Linquenda tellus et domus et placens Uxor, neque harum quas colis arborum Te praeter invisas cupressos Ulla brevem dominum sequetur.
Absumet heres Caecuba dignior Servata centum clavibus et mero Tinguet pavimentum superbo, pontificum potiore cenis.
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Ahimè, troppo in fretta, Postumo, mio Postumo, si consumano gli anni né le tue preghiere fermeranno le rughe o la vecchiaia che avanza e la invincibile morte,
neppure, amico mio, se tu volessi impietosire con trecento tori ogni giorno l’insensibile Plutone, che avvinghia inesorabile Gerione e Tizio dentro l’onda buia, quella che solcheremo anche noi quanti nutre la terra coi suoi doni, dal più povero al più potente.
Invano eviteremo le guerre sanguinose O le scogliere dove si frange l’Adriatico in tempesta. Invano fuggiremo Dal nocivo vento dell’autunno.
Tutti vedremo il nero Cocito Serpeggiare con la sua torpida corrente E la scellerata stirpe di Danao E Sisifo condannato alla fatica eterna.
Dovrai lasciare la terra e la casa E la donna che ami Né alcuno degli alberi che ora coltivi Ti seguirà Ad eccezione del lugubre cipresso.
Più degno erede berrà il Cecubo Che ora custodisci con cento chiavi E d il superbo vino Che neppur trovi alle cene dei pontefici macchierà il pavimento. |
II,16 – A Grosfo
Otium divos rogat in patenti Prensus Aegaeo, simul atra nubes Condidit lunam neque certa fulgent Sidera nautis;
otium bello furiosa Thrace, otium Medi npharetra decori, Grosphe, non gemmis neque purpura Venale neque auro.
Non enim gazae neque consularis summovet lictor miseros tumultus Mentis et curas laqueata circum Tecta volantis.
Vivitur parvo bene, cui paternum Splendet in mensa tenui salinum Nec levis somnos timor aut cupido Sordidus aufert.
Quid brevi fortes iaculamur aevo Multa? Quid terras alio calentis Sole mutamus? Patriae quis exul Se quoque fugit?
Scandit aeratas vitiosa navis Cura nec turmas equitum relinquit, ocior cervi set agente nimbos ocior Euro.
Laetus in praesens animus quod ultra est Oderit curare et amara lento Temperet risu: nihil est ab omni Parte beatum.
Abstulit clarum cita mors Achillem, Longa Tithonum minuit senectus, Et mihi forsan, tibi quod negarit, porriget hora.
Te greges centum Sicualaeque circum Mugiunt vaccae, tibi tollit hinnitum Apta quadrigis equa, te bis Afro Murice tinctae Vestiunt lanae: mihi parva rura Et spiritum Graiae tenuem Camenae Parca non mendax dedit et malignum Spernere volgus. |
Pace chiede agli dei Chi viene colto Dalla tempesta nell’Egeo Quando le nere nubi nascondono la luna E non più chiare ai naviganti Risplendono le stelle; pace chiedono i Traci così feroci in guerra, pace chiedono i Medi ornati di belle faretre.
Né con gemme, né con oro, né con porpora, o Grosfo, potrai comprare la pace, né le ricchezze né i littori dei consoli potranno rimuovere gli infelici travagli della mente e le angosce dell’animo che volano anche sotto i tetti dorati.
Vive bene con poco quegli cui splende Sulla mensa la saliera paterna E non toglie il sonno la paura Od insana ambizione.
Perché a tanto ci affanniamo Se breve è la vita? Perché cerchiamo altre terre Scaldate da altro sole? Chi esule dalla patria fugge se stesso?
Più veloce dei cervi, più veloce di Euro che scatena le tempeste la cupa angoscia sale anche sulle ferree navi né lascia l’orde dei cavalieri.
Lieto gode del presente Chi non si cura di pensare inquieto Al domani E stempera con un lieve sorriso le amarezze: felicità perfetta non esiste.
Una morte precoce rapì il famoso Achille Una lunga vecchiaia afflisse Titone E forse a me il destino Concederà quel che a te è negato.
Cento e cento giovenche di Sicilia Muggono intorno a te, Per te alza alto il nitrito La puledra del cocchio, e ti vestono lane tinte di porpora africana. A me la Parca non bugiarda Diede soltanto in sorte un campicello E l’armonia sottile della musa greca E per il volgo miserabile il disprezzo.
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