UNA NOBILE DECADUTA

Quando nel lontanissimo 1962 entrai come volontario nell’Istituto di Clinica Medica dell’Università di Bologna la Medicina Interna era considerata la “regina delle discipline”. Lo confermava  l’Istituto stesso, il più maestoso tra tutti i padiglioni del Policlinico S.Orsola.  Altri Istituti importanti ma di dimensioni più limitate e meno appariscenti erano quelli di Clinica Ostetrica, di Clinica Chirurgica, di Dermatologia, di Oculistica e di Anatomia Patologica. Altre Unità non avevano visibilità, essendo inglobati nei complessi maggiori, ad esempio la Otorinolaringoiatria presso il Pronto Soccorso, la Radiologia presso la Clinica Medica, la Patologia Medica presso la Clinica Oculistica, l’Anestesia e la Urologia presso la Clinica Chirurgica, di cui rappresentavano quasi delle Sezioni. Questa la situazione del Policlinico, a testimonianza dell’assunto iniziale, quello della Clinica Medica “regina delle discipline”, e della ancor embrionale parcellizzazione specialistica della medicina.

In Clinica Medica venivano ricoverati malati di tutti i tipi. Per intenderci:  dall’epatite allo scompenso cardiaco, dalla anoressia mentale alla leucemia acuta, dal morbo di Cushing al tumore del polmone, dall’ictus alle cardiopatie congenite, e così enumerando. Si trattava spesso dei casi più complessi ed impegnativi, che giungevano, oltre che da Bologna e dalle città dell’Emilia Romagna, anche da molte altre regioni d’Italia, in particolare quelle della fascia adriatica e del meridione. Il direttore dell’epoca, il professor Giulio Sotgiu, pretendeva che i suoi medici fossero in grado di gestire tutte queste variegate situazioni cliniche. Compito non impossibile, visto che a quel tempo  molto modeste erano le possibilità diagnostiche ed ancor meno quelle terapeutiche.  Il lavoro clinico si risolveva nella diagnostica differenziale, che presupponeva ampie conoscenze teoriche e si avvaleva della capacità di osservazione e della  logica: observatio et ratio, come si diceva a quei tempi. Insomma, più filosofia che scienza. Va da sè che, dovendosi affidare alla semeiotica “classica” in mancanza di valide metodiche di studio, la maggior parte delle diagnosi erano sbagliate o comunque assai grossolane rispetto agli standard di oggi. Come del resto emergeva  quando alcuni casi andavano poi al riscontro autoptico, che metteva in evidenza condizioni patologiche di cui i clinici non avevano avuto il ben che minimo sentore.

Comunque già a quel tempo le conoscenze crescevano tumultuosamente, per cui alcuni, ben più accorti di noi della Clinica Medica, già cominciavano a concentrarsi esclusivamente su particolari settori specialistici. Tra tutti il più lungimirante fu il professor Domenico Campanacci (direttore della Patologia Medica) che, pur nelle ristrettezze della sua sistemazione logistica, impose ai suoi allievi di dedicarsi in maniera esclusiva alle varie specialità mediche, quali ad esempio la Cardiologia, l’Ematologia, la Nefrologia, ecc. Tali discipline, infatti, da lì a breve, avrebbero acquisito completa autonomia, grazie ai progressi della tecnologia che avrebbe messo a punto strumentazioni innovative in campo diagnostico e terapeutico.

Fu così che gli allievi del Campanacci occuparono tutte le posizioni specialistiche sia in ambito universitario che ospedaliero, mentre noi della Clinica Medica ci ritrovammo in mezzo al guado, assai incerti sul da farsi.  Il nostro futuro professionale fu condizionato per alcuni  da libere scelte,  per altri (in particolare  per quelli che proseguirono la loro carriera nell’università oppure in ospedale) dalle contingenze della vita. Mi spiego meglio. Chi intraprese la libera professione si dedicò alla medicina generale oppure ad un settore specialistico da lui preferito; alcuni  tra quelli che intrapresero la carriera ospedaliera od universitaria ebbero la possibilità di riciclarsi su settori considerati all’epoca meno rilevanti, quali Oncologia, Riabilitazione, Medicina dello Sport, Allergologia, Reumatologia e simili; altri, assai lungimiranti, si dedicarono esclusivamente a patologie di grande impatto sociale, quali il diabete, l’obesità, l’arteriosclerosi, ecc; altri infine ebbero la fortuna di aver tra le mani per primi strumenti innovativi (gli ecografi in particolare) su cui costruirono la loro carriera. Comunque, a parte tutti questi,  i più rimasero nell’alveo della medicina interna, e poi della geriatria che ne fu immediata gemmazione.

Cosa rimase loro di utilizzabile dell’enorme bagaglio culturale che avevano acquisito in tanti anni di pratica e di studi severi? Poco. Nello spazio d’un mattino la “ fu regina delle discipline”  si andò svuotando dei suoi originari contenuti. Tutti gli ammalati affetti da una sola patologia, in genere i più giovani, andavano a cercare le competenze delle innumerevoli discipline specialistiche e sub specialistiche, e quindi alla Medicina Interna rimasero soltanto i malati complessi, quelli affetti da molteplici patologie croniche, nella maggior parte dei casi anziani, i malati cioè praticamente “non guaribili”, quelli in cui il massimo dei successi consiste nell’evitare un aggravamento della patologia.  La regina delle discipline divenne in breve tempo una specialità medica di rango inferiore cui rimanevano ben poche tracce dell’antica grandezza.

Ancor peggio se la passarono quelli che trasmigrarono nei neonati reparti di Geriatria. L’invecchiamento della popolazione aveva reso necessaria la creazione di queste nuove divisioni, dove sistemare gli ammalati più estremi, in pratica quelli in cui non c’era poco o nulla da fare, con problematiche ulteriori rispetto a quelle dei normali utenti della medicina interna, come ad esempio le piaghe da decubito, l’incontinenza urinaria, la demenza senile, ed altre. Insomma, gli ammalati “incurabili”.

 

Valga ad esemplificare quanto su esposto la narrazione del mio personale percorso professionale e culturale. Un percorso tutto in salita, che mi obbligò, di volta in volta, a buttare nella pattumiera una montagna di conoscenze e competenze scientifico-professionali, per apprenderne altre del tutto nuove. Per dirla in una parola “a ricominciare sempre daccapo”.

Nei miei primi anni appartenni alla schiera dei “tuttologi”: me la cavavo in tutti i settori della vasta materia, dalla gastroenterologia alla cardiologia, dall’endocrinologia alla ematologia, dalla nefrologia alla pneumologia, per intenderci. Coltivavo in particolare l’endocrinologia, essendo entrato a far parte di un team che si occupava in modo specifico delle patologie della sfera genitale maschile e femminile: una competenza questa volta soprattutto alla pubblicazione di lavori scientifici indispensabili per il conseguimento della “libera docenza”.

Gli eventi accademici (il trasferimento nell’Istituto di Patologia Medica diretto da Sergio Lenzi, internista e soprattutto cardiologo) mi portarono negli anni ’70 a tralasciare completamente l’endocrinologia per occuparmi di cardiologia e specificamente di disturbi del ritmo cardiaco, e quindi ad apprendere e praticare complesse metodiche di studio elettrofisiologico, oggetto  poi di molti lavori e di alcune monografie. Il destino, tuttavia, aveva in serbo per me ulteriori sorprese, chiamandomi a ricoprire una cattedra di gerontologia e geriatria che mi impose giocoforza, da un lato, di buttare a mare anche le ampie competenze cardiologiche, e dall’altro di acquisirne di nuove: intendo dire, trattandosi di geriatria,  conoscenze in campo riabilitativo, neurologico, psichiatrico, urologico, vulnologico e così enumerando.  Tutto ciò ad un’età in cui il cervello è meno agile ed il tempo a disposizione (a causa delle responsabilità dirigenziali) assai limitato.

Insomma, uno sforzo immane, ma senza particolare frutto, poiché le nuove competenze, che travasavo mano a mano nei miei allievi, non sortivano apprezzabili effetti pratici in un reparto che gli amministratori consideravano senza mezzi termini come “la pattumiera dell’ospedale”. E dicendo questo ho detto tutto, senza entrare per carità di patria  nel dettaglio delle vistose carenze di organico e della qualità delle prestazioni infermieristiche, che lascio soltanto immaginare. Per cui, dopo tanto faticare,  dopo aver percorso tutta questa strada in salita,  devo purtroppo constatare di aver praticato una medicina antica in gran parte inutile e di non essere stato al passo con i tempi.

 

Riprendendo comunque il filo del discorso, a fronte di tali mutamenti epocali avremmo atteso che l’università, considerata nel passato popolata dai migliori ingegni del paese, avesse modificato adeguatamente il contenuto culturale della disciplina. Ed invece, purtroppo, è davvero stupefacente constatare come ancor oggi, a distanza di 70 anni, poco o nulla sia cambiato nell’insegnamento della Medicina Interna.  Andando ad esaminare i programmi del Corso di Laurea ed ancor più quelli del Corso di Specializzazione c’è  da rimanere allibiti. Dentro c’è di tutto: a parte gli apparati più specifici (il cardiovascolare, gastrointestinale, respiratorio, endocrino, ecc) non vi è altro apparato che venga tralasciato, tra cui la cute, il sistema nervoso, l’orecchio interno ed esterno, le malattie  del sangue, tutte le patologie infettive dovute agli agenti patogeni più vari, quali ad esempio la lebbra, la nocardiosi, la sifilide, e tutti i funghi che il Padreterno ha disseminato su questa terra. Si leggono amenità, ad esempio riguardanti le sindromi da irsutismo e virilizzazione, le emocromatosi, le porfirie, e tante altre che per carità di patria vi risparmio.

Per dirla in breve in questi programmi e percorsi didattici compaiono patologie che l’internista di oggi non vedrà mai in vita sua; nella remota ipotesi che ne vedesse qualcuna, sarebbe per lui altamente consigliabile richiedere la consulenza di  uno specialista, anche nel fondato timore di incorrere in guai seri di natura medico-legale. Per esemplificare, non si capisce bene cosa ci stiano a fare le ipetricosi oppure la nocardiosi nel contesto delle capacità diagnostiche e terapeutiche dell’internista e sorge il sospetto che siano state inserite in quei programmi giusto perché “faceva figo”, oppure perché consentivano all’estensore di allungare il brodo o di dargli una nuance di discutibile sapidità. Fatto è che per l’internista la probabilità di imbattersi in un caso di nocardiosi sia pari a quella che una donna irsuta vada a farsi depilare da un tosacani. Ed è ancor più difficile comprendere tanta ricchezza dei programmi d’esame  a fronte di docenti monopatologia, che hanno costruito la loro carriera pubblicando articoli pseudoscientifici su un solo argomento, ma che poi ignorano dove stia di casa la pleurite.

E’ del tutto evidente la dissociazione schizofrenica tra la didattica e la realtà operativa. La maggior parte degli  ammalati  attualmente ricoverati nei reparti di Medicina Interna rientrano in una   gamma abbastanza limitata di patologie: si tratta, infatti, delle malattie più comuni sotto il profilo epidemiologico, quali ad esempio lo scompenso cardiaco, le comuni broncopneumopatie, il diabete mellito, l’ipertensione arteriosa,  e poche altre quasi sempre tra loro associate, come il lettore può facilmente comprendere.

Quale dovrebbero dunque essere il bagaglio culturale, e quali le abilità pratiche, dell’internista moderno che opera in ambiente ospedaliero? E’ presto detto: dovrebbe saper gestire assai bene le malattie più comuni, e semplicemente “sapere dell’esistenza” di altre assai meno comuni, per le quali ricorrerà (caso mai le vedesse) allo specifico specialista. Dal punto di vista pratico, dovrebbe buttare alle ortiche più del novanta per cento della semeiotica tradizionale, mantenendone soltanto alcune abilità fondamentali,  acquisendo al suo posto  la capacità di eseguire metodiche diagnostiche  di primo livello (soprattutto le varie ecografie d’organo). Per esemplificare, più che con il fonendoscopio dovrebbe girare in corsia con l’ecografo portatile. Dovrebbe mettere  sull’ultimo scaffale della libreria i vecchi trattati di medicina interna, l’Introzzi, il Fieschi, il Rasario per i pochi centenari superstiti, il Campanacci, il Teodori e l’Harrison per i novantenni d’oggi, il Rugarli, il Notarbartolo o simili per i cinquantenni, sostituendoli con più agili volumetti depurati da tutte le nozioni divenute per lui inutili. Un geriatra (un geriatra vero) a queste competenze dovrebbe associare quelle relative alle patologie di più frequente riscontro nelle fasce d’età avanzata (che non sono poche).

Per concludere. Come alla decrepita e spocchiosa  contessa Serbelloni Mazzanti Viendalmare di fantozziana memoria, alla Medicina Interna oggi è rimasto assai poco dell’antica classe e dell’antico prestigio. Con tutte le macchine portentose messe a disposizione dalla tecnologia la diagnosi differenziale è morta ed anche la semeiotica si sente poco bene. Si spera che rispetto a molti superspecialisti, che vedono il paziente come un cliente e come un numero, all’internista sia rimasto almeno un briciolo in più di umanità.

 

 

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