Il soccorso delle parole

La inaspettata irruzione del  Covid 19 nelle nostre vite ha sconvolto la microprassi delle  nostre abitudini   quotidiane,  costringendoci a radicali cambiamenti  nei rapporti con il prossimo,   nella  pratica del  lavoro e del tempo libero, ma soprattutto nel modo di sentire e progettare  il futuro.  La necessità di confrontarci con questa  entità invisibile e sconosciuta, eppur così prepotentemente letale, ha messo a nudo molte certezze, in particolare  la capacità dell’uomo di  poter dominare la natura e gli eventi,  riportandoci  indietro nel  tempo, allo stupore ed alla paura che pervadeva l’umanità nel corso dei grandi flagelli epidemici del passato.  Ci siamo  interrogati sul significato reale della parola “progresso”, non sempre sinonimo di miglioramento, ma anche di regressione, se causa di uno sconvolgimento degli equilibri millenari della natura.  Si  sono venuti così a disegnare nuovi scenari a livello globale, portando  alla ribalta la necessità di una transizione ecologica,  di radicali cambiamenti nella  organizzazione del  lavoro, in una parola  nella progettazione del  futuro.  A fronte dell’obbligatorio allentamento dei contatti interpersonali si sono accentuate le opportunità offerte dalle tecnologie della informazione, destinate  a perpetuarsi negli anni a venire, quando (sperabilmente)  il pericolo sarà alle spalle, modificando comunque in maniera irreversibile le nostre modalità di comunicazione.

Deriva da queste considerazioni la raccolta di scritti pubblicati nel volume  “Il soccorso delle parole” (Orizzonti di senso durante la pandemia) a cura di Eide Spedicato Iengo e Massimo Palladini (Franco Angeli Editore).   L’intendimento dei curatori è stato quello di affidare a  studiosi  di varie discipline una riflessione sui i “cambiamenti di senso” delle parole più consolidate riguardanti l’abitare, il lavorare, l’apprendere, il comunicare, il rapportarci con l’altro.  Il libro si apre con una intervista di Maria Rosaria La Morgia (giornalista) a Francesco Sabatini (linguista e filologo) sul linguaggio come strumento del pensiero, e sulle modificazioni, spesso profonde ed irreversibili, ad esso apportate dagli eventi.   Gli scritti  (di Giuseppe Abate, Antonio Bini, Anouscka Brodacz, Licia Caprara, Nando Cianci, Simone D’Alessandro, Giovanni Damiani, Valentina De Matteis, Lia Giancristofaro, Giulia Palladini, Enrico Raimondi, Rosalba Spadafora, Pasquale Tunzi, e naturalmente dei curatori Massimo Palladini ed Eide Spedicato Iengo) che costituiscono il corpus dell’opera sviluppano successivamente un discorso plurale, che si interroga sulla incidenza  che la minuscola, invisibile, impalpabile, indecifrabile  particella del virus, raffigurata in forma di una “pallina illeggiadrita da fiocchetti  rossi”, ha avuto ed avrà sulle nostre esistenze.

A seguire un breve saggio contenuto nel volume di Eide Spedicato Iengo.

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La fragilità e il tempo dell’orologio

(di Eide Spedicato Iengo)

Dando forma alla realtà secondo significati definiti convenzionalmente, le parole disvelano le tonalità e gli umori del pensiero sociale, notificandone gli orientamenti, le tensioni, le derive. Nel tempo, alcune inevitabilmente si corrompono svuotandosi del significato originario e altre, invece, si restaurano aggiornandosi sulla realtà di dinamismi e accelerazioni trasformative; alcune si semplificano e altre diventano più articolate e complesse; alcune, pur se costantemente pronunciate, denunciano spazi di assenza e altre, disorientanti, soffrono di afasia e non trovano più approdi garantiti nella realtà. La parola fragilità è fra queste. Abita, non casualmente, nel regno delle parole-sospese.

      Tale asserzione non implica, ovviamente, che questo vocabolo sia stato cancellato dal vocabolario o espunto dal linguaggio corrente. Ciò che intendo dire è che si è perso il concetto di fragilità come elemento ineludibile della natura umana. Raramente pronunciata, palesemente nascosta quando se ne ha consapevolezza, fastidiosamente percepita come un limite di sé, è una parola che nell’attualità vive prevalentemente nell’ombra, aprendosi incidentalmente solo allo spazio della malattia e dei disagi fisici o psicologico-caratteriali. D’altronde, quale udienza potrebbe trovare negli attuali scenari sociali spregiudicati, irriflessivi, spocchiosi, omologati, superficiali, un vocabolo che allude all’instabilità, alla gracilità, alla cagionevolezza, ai cedimenti, alla mancanza di resistenza a determinati fattori, ovvero a espressioni rovesciate rispetto ai paradigmi valoriali in auge e ai modelli di socializzazione correnti? Verosimilmente pochissima o addirittura nessuna.

Eppure la fragilità, che sembra stretta esclusivamente in una gabbia di inadeguatezze, insufficienze, carenze, inconsistenze non si riassume in questi soli significati. È ben altro e molto più. È, per esempio, percettività sensibile, intuizione, empatia, delicatezza, comprensione, emozione, senso del limite. La presenza dell’uomo sulla terra è assicurata, non per caso, precisamente dalla labilità, ossia dalla sua capacità di assorbire complessi meccanismi di interazione o interferenza fra sé e l’ambiente. La fragilità, quindi, è una delle strutture portanti del vivere o, meglio, è una condizione dalla quale non può prescindere qualunque cosa viva.

La vita è caducità, vulnerabilità, precarietà e noi siamo esistenze finite nel tempo. In un istante scenari di certezze possono crollare. E, infatti, è bastato il salto di specie di un impercettibile virus per destabilizzare la nostra natura di animali sociali; compromettere interi assetti economici, produttivi, civili, affettivi, relazionali; certificare l’abbaglio dell’uomo padrone della Storia, documentando la sua inadeguatezza a prevedere l’imprevedibile. Eppure, nel tempo, questa inconfutabile espressione della realtà umana è stata progressivamente coperta d’ombra. Ovvero, e detto altrimenti, l’uomo si è ubriacato di un utopico, incontenibile senso di onnipotenza e, perdendo il senso dell’equilibrio, è scivolato nel culto arrogante di sé affidando la rotta della civiltà alla religione delle possibilità illimitate.

Con questa scelta, superfluo il sottolinearlo, ha automaticamente cancellato dal proprio orizzonte il peso del tempo biologico, ovvero quel grande protagonista della storia naturale cui è legata la sua stessa storia e sopravvivenza, identificandosi con il tempo dell’orologio (quello della produzione e dei consumi). In breve: ha scelto «un ramo secco nell’albero dell’evoluzione, ha scelto la strada percorsa dai dinosauri. Il tempo danaro, il tempo dell’orologio non sono [infatti] i tempi che contano per instaurare un corretto rapporto con la natura. Paradossalmente l’orologio, simbolo dell’ordine, scandisce le ore del disordine, la frenesia del consumismo e della crescita della produzione e avvicina i tempi del disordine globale». Ossia quelli attuali.

Di qui il divorzio fra le ragioni dell’umanità e i misteri della natura; l’esuberante vitalità di quel pensiero vorace quanto socialmente approvato che riduce l’ambiente a puro materiale da vandalizzare quasi fosse uno spazio inerte incapace di risposta; la diffusione della fertile serra delle prassi revocabili e discontinue, dell’individualismo libertario, del dionisiaco scomposto e generalizzato che giocano un ruolo non secondario nell’attuale dissesto della convivenza sociale, civile, politica, ambientale; la pericolosa adesione a quella moralità centripeta esclusivamente privata, che espunge da sé ogni alterità; l’elezione a valore egemone e snaturato dell’azione la cultura dell’oltre e del sempre di più. L’antica convinzione che assegnava all’etica il compito di scegliere i fini e alla tecnica il reperimento dei mezzi per la loro realizzazione è, infatti, tramontata da un pezzo: dal giorno in cui il fare tecnico ha assunto come fini quelli che risultano dalle sue operazioni. Ovvero, da quando la tecnica si è trasformata in una sorta di “entità” autonoma, creatrice di un mondo con sue proprie caratteristiche che abitua a contrarre prassi, consuetudini, desideri, ideazioni che hanno bisogno di lei per esprimersi. Lo dimostra l’opulenza tecnologica che domina le grammatiche e i linguaggi dell’industria, della cultura, della politica, della società, degli individui; lo confermano l’informatica e internet che hanno non solo prodotto nuove armature logiche e comportamentali, nuovi profili sociali, nuove individualità, nuovi orientamenti valoriali, ma anche cambiato l’organizzazione della società e le condizioni d’esistenza più di qualsiasi idea politica o progetto collettivo.

Un esempio per tutti: il diritto al lavoro, oggi, sciaguratamente non è più tale. Si pensi agli effetti dell’elettronica, dell’automazione, dell’intelligenza artificiale che tratteggiano un futuro in cui non è più l’uomo a produrre beni, neppure in modo indiretto (assemblando pezzi o conducendo macchinari) dal momento che il lavoro viene svolto direttamente ed in modo esclusivo «da robot o meglio da cyber-physical system, in grado di auto-apprendere e migliorare le proprie prestazioni. I primi effetti di tale rivoluzione sono un incremento della disoccupazione o quantomeno una stazionarietà nella crescita dell’occupazione in quasi tutti i Paesi, e più ancora un’accentuata polarizzazione nel mondo del lavoro, con l’espulsione delle figure con compiti routinari sia di basso che, per la prima volta, di medio livello». Qualunque siano gli scenari futuri (anche quelli più ottimistici che orientano a ritenere come insostituibile la presenza degli umani nello spazio del lavoro) resta comunque il fatto che la rivoluzione digitale non solo cancellerà molta parte del lavoro oggi esistente, ma abituerà a ritenere politicamente corretta la subordinazione delle esigenze dell’uomo a quelle dell’apparato tecnico. Lo scenario, del resto, è già allestito: a dimostrarlo sono la primazia della tecnocrazia sulla scienza, della finanza sull’economia, dell’aumento di capitale sull’investimento lavorativo e produttivo, della strumentazione virtuale sulla comunicazione reale, della mera gestione dello Stato sulla vera progettualità politica, della vita digitale su quella umana.

A fare i conti con i problemi profondi di una società che cammina sul filo di un rasoio e finge di non accorgersi che è prossima al suo tramonto se non corregge le sue disfunzioni e non impara a praticare l’equilibrio e l’equità, può contribuire precisamente la fragilità. Questa espressione perenne e ineluttabile della realtà umana (che poggia sul senso del limite come condizione strutturale dell’esistenza) può aiutare a liberare dall’inessenziale e a non ridurre il mondo  a un paniere di prodotti da consumare all’istante; può svincolare l’esistenza da quel progetto sociale illiberale  che ha per obiettivo l’appiattimento e il livellamento delle individualità in un unico denominatore di bisogni, consumi, stili di vita; può sbarrare la porta al surfismo sociale e ai suoi ingombranti, pericolosi fratelli (l’individualismo narcisistico, il cosmopolitismo utilitarista, l’area dei diritti senza doveri, il torpore morale, il relativismo assoluto, il disimpegno civico, l’analfabetismo etico, il deserto affettivo) che stanno compromettendo sia la stabilità della convivenza sociale, sia il futuro dello splendido pianeta azzurro che sciattamente e indebitamente abitiamo.

A questo proposito andrebbe interiorizzato il concetto che una società versatile a rincorrere il sempre “nuovo” e “diverso” strattona la struttura biologica e psichica degli individui che, sebbene sia elastica, non lo è tuttavia all’infinito. Ogni norma di adattamento, che lo si voglia o no, esige un prezzo e l’attuale riformulazione di sé per rispondere a scenari sempre più discontinui, instabili, accelerati può logorare il corpo, compromettere il rendimento, ridurre il perimetro delle emozioni, del tempo riflessivo, dello spazio esplorativo. Insomma, l’eccesso, la rapidità di informazioni e il sovraccarico di innovazioni possono intrappolare nel caos di esperienze ingestibili e interrompere il legame fra gli uomini e le cose. Il controllo dell’ambiente e la percezione della realtà poggiano, infatti, sulle menti agili e plastiche che sanno valutare e selezionare con lucidità, non su quelle fluttuanti, anestetizzate, instabili, a rimorchio di ogni novità, né su quelle disinvolte, irruenti, autocentrate, autoreferenziali che contano solo sulle proprie capacità, trascurando che gli esseri umani hanno limiti biologici prefissati nel corpo, nella mente, nella vita emotiva.

      Dunque, la fragilità svolge un indispensabile, inequivocabile vantaggio per il patrimonio della specie orientando nella direzione corretta e sostenibile del vivere: è tutt’altro che una manchevolezza. È, all’opposto, una strategia di vita che bisogna imparare a praticare: in primo luogo, perché sconfessa la filosofia del potere, «un’anomalia, un incomprensibile errore di prospettiva» e, in secondo luogo, perché  obbliga a dare alle cose il giusto valore se non si vuole poi pagare tutto e con gli interessi. Fra l’altro: contrarre debiti con la natura, come documenta la parte globalizzata e bulimica del pianeta, significa invariabilmente compromettere l’equilibrio dell’intera biosfera (il nostro mega-sacco amniotico, per dirla con Ilaria Capua), rendendoci nemici di noi stessi.

In questo drammatico e devastante tempo di pandemia, la fragilità ci dimostra, senza equivoci, che siamo creature deboli e vulnerabili, esposte a minacce che si pensavano lontanissime, circoscritte ai confini del mondo. Ovvero, allertando sulla eventualità (peraltro non remota) di promuovere futuri distopici, ci esorta esplicitamente ad adottare nuovi, sostenibili stili di vita capaci di dar torto a quel modus agendi che ha congedato il principio di responsabilità, tacitato l’etica, letto il mondo dalla superficie. Ci sollecita, insomma, a dare inizio a una stagione di critica sociale tesa a dissipare quelle nebbie che hanno accompagnato l’uomo fin dal suo ingresso nel grande gioco della modernità, allorché si è scelto «Cartesio invece di Montaigne, la via del controllo razionale e tecnologico del mondo invece di quella della saggezza, di quel sapere che non si è mai proposto di esorcizzare il limite, ma ha continuamente dialogato con esso. Non sarebbe male se la modernità incominciasse a far vincere quel suo lato che non contrappone drammaticamente la luce e il buio, ma apprezza le mille sfumature che li collegano, che conosce l’ambivalenza del mondo».  Per inciso: la saggezza, non casualmente, è sorella dell’umiltà, un valore epistemologico che, avendo in dispetto la dismisura, poggia sull’equilibrio, dà unità d’indirizzo alla vita, ha cura del pensiero meditante oggi messo prepotentemente all’angolo da quello calcolante che, non ponendosi interrogativi metafisici né interrogandosi sull’enigma del mondo, insegue freneticamente un’occasione dopo l’altra e ritiene imperdonabile e non difendibile ogni occorrenza mancata.

Va da sé: aver coscienza della fragilità non cambia all’improvviso lo scenario sociale, ma – come già detto- orienta ad altre scelte, altre consapevolezze, altre priorità. Per esempio, a restituire cittadinanza a parole traballanti e socialmente appartate (quali etica, coerenza, credibilità, rispetto, passione, civismo, fiducia, legalità) che, lungi dall’alludere a utopie costituiscono, all’opposto, la premessa indispensabile vuoi per promuovere la tutela dei beni comuni, vuoi per correggere questo nostro presente tanto scomposto, rissoso, frammentato, dissennato, anomico quanto lontano dall’idea che il vero progresso è generato solo dall’umanità che conosce i propri limiti.


UNA NOBILE DECADUTA

Quando nel lontanissimo 1962 entrai come volontario nell’Istituto di Clinica Medica dell’Università di Bologna la Medicina Interna era considerata la “regina delle discipline”. Lo confermava  l’Istituto stesso, il più maestoso tra tutti i padiglioni del Policlinico S.Orsola.  Altri Istituti importanti ma di dimensioni più limitate e meno appariscenti erano quelli di Clinica Ostetrica, di Clinica Chirurgica, di Dermatologia, di Oculistica e di Anatomia Patologica. Altre Unità non avevano visibilità, essendo inglobati nei complessi maggiori, ad esempio la Otorinolaringoiatria presso il Pronto Soccorso, la Radiologia presso la Clinica Medica, la Patologia Medica presso la Clinica Oculistica, l’Anestesia e la Urologia presso la Clinica Chirurgica, di cui rappresentavano quasi delle Sezioni. Questa la situazione del Policlinico, a testimonianza dell’assunto iniziale, quello della Clinica Medica “regina delle discipline”, e della ancor embrionale parcellizzazione specialistica della medicina.

In Clinica Medica venivano ricoverati malati di tutti i tipi. Per intenderci:  dall’epatite allo scompenso cardiaco, dalla anoressia mentale alla leucemia acuta, dal morbo di Cushing al tumore del polmone, dall’ictus alle cardiopatie congenite, e così enumerando. Si trattava spesso dei casi più complessi ed impegnativi, che giungevano, oltre che da Bologna e dalle città dell’Emilia Romagna, anche da molte altre regioni d’Italia, in particolare quelle della fascia adriatica e del meridione. Il direttore dell’epoca, il professor Giulio Sotgiu, pretendeva che i suoi medici fossero in grado di gestire tutte queste variegate situazioni cliniche. Compito non impossibile, visto che a quel tempo  molto modeste erano le possibilità diagnostiche ed ancor meno quelle terapeutiche.  Il lavoro clinico si risolveva nella diagnostica differenziale, che presupponeva ampie conoscenze teoriche e si avvaleva della capacità di osservazione e della  logica: observatio et ratio, come si diceva a quei tempi. Insomma, più filosofia che scienza. Va da sè che, dovendosi affidare alla semeiotica “classica” in mancanza di valide metodiche di studio, la maggior parte delle diagnosi erano sbagliate o comunque assai grossolane rispetto agli standard di oggi. Come del resto emergeva  quando alcuni casi andavano poi al riscontro autoptico, che metteva in evidenza condizioni patologiche di cui i clinici non avevano avuto il ben che minimo sentore.

Comunque già a quel tempo le conoscenze crescevano tumultuosamente, per cui alcuni, ben più accorti di noi della Clinica Medica, già cominciavano a concentrarsi esclusivamente su particolari settori specialistici. Tra tutti il più lungimirante fu il professor Domenico Campanacci (direttore della Patologia Medica) che, pur nelle ristrettezze della sua sistemazione logistica, impose ai suoi allievi di dedicarsi in maniera esclusiva alle varie specialità mediche, quali ad esempio la Cardiologia, l’Ematologia, la Nefrologia, ecc. Tali discipline, infatti, da lì a breve, avrebbero acquisito completa autonomia, grazie ai progressi della tecnologia che avrebbe messo a punto strumentazioni innovative in campo diagnostico e terapeutico.

Fu così che gli allievi del Campanacci occuparono tutte le posizioni specialistiche sia in ambito universitario che ospedaliero, mentre noi della Clinica Medica ci ritrovammo in mezzo al guado, assai incerti sul da farsi.  Il nostro futuro professionale fu condizionato per alcuni  da libere scelte,  per altri (in particolare  per quelli che proseguirono la loro carriera nell’università oppure in ospedale) dalle contingenze della vita. Mi spiego meglio. Chi intraprese la libera professione si dedicò alla medicina generale oppure ad un settore specialistico da lui preferito; alcuni  tra quelli che intrapresero la carriera ospedaliera od universitaria ebbero la possibilità di riciclarsi su settori considerati all’epoca meno rilevanti, quali Oncologia, Riabilitazione, Medicina dello Sport, Allergologia, Reumatologia e simili; altri, assai lungimiranti, si dedicarono esclusivamente a patologie di grande impatto sociale, quali il diabete, l’obesità, l’arteriosclerosi, ecc; altri infine ebbero la fortuna di aver tra le mani per primi strumenti innovativi (gli ecografi in particolare) su cui costruirono la loro carriera. Comunque, a parte tutti questi,  i più rimasero nell’alveo della medicina interna, e poi della geriatria che ne fu immediata gemmazione.

Cosa rimase loro di utilizzabile dell’enorme bagaglio culturale che avevano acquisito in tanti anni di pratica e di studi severi? Poco. Nello spazio d’un mattino la “ fu regina delle discipline”  si andò svuotando dei suoi originari contenuti. Tutti gli ammalati affetti da una sola patologia, in genere i più giovani, andavano a cercare le competenze delle innumerevoli discipline specialistiche e sub specialistiche, e quindi alla Medicina Interna rimasero soltanto i malati complessi, quelli affetti da molteplici patologie croniche, nella maggior parte dei casi anziani, i malati cioè praticamente “non guaribili”, quelli in cui il massimo dei successi consiste nell’evitare un aggravamento della patologia.  La regina delle discipline divenne in breve tempo una specialità medica di rango inferiore cui rimanevano ben poche tracce dell’antica grandezza.

Ancor peggio se la passarono quelli che trasmigrarono nei neonati reparti di Geriatria. L’invecchiamento della popolazione aveva reso necessaria la creazione di queste nuove divisioni, dove sistemare gli ammalati più estremi, in pratica quelli in cui non c’era poco o nulla da fare, con problematiche ulteriori rispetto a quelle dei normali utenti della medicina interna, come ad esempio le piaghe da decubito, l’incontinenza urinaria, la demenza senile, ed altre. Insomma, gli ammalati “incurabili”.

 

Valga ad esemplificare quanto su esposto la narrazione del mio personale percorso professionale e culturale. Un percorso tutto in salita, che mi obbligò, di volta in volta, a buttare nella pattumiera una montagna di conoscenze e competenze scientifico-professionali, per apprenderne altre del tutto nuove. Per dirla in una parola “a ricominciare sempre daccapo”.

Nei miei primi anni appartenni alla schiera dei “tuttologi”: me la cavavo in tutti i settori della vasta materia, dalla gastroenterologia alla cardiologia, dall’endocrinologia alla ematologia, dalla nefrologia alla pneumologia, per intenderci. Coltivavo in particolare l’endocrinologia, essendo entrato a far parte di un team che si occupava in modo specifico delle patologie della sfera genitale maschile e femminile: una competenza questa volta soprattutto alla pubblicazione di lavori scientifici indispensabili per il conseguimento della “libera docenza”.

Gli eventi accademici (il trasferimento nell’Istituto di Patologia Medica diretto da Sergio Lenzi, internista e soprattutto cardiologo) mi portarono negli anni ’70 a tralasciare completamente l’endocrinologia per occuparmi di cardiologia e specificamente di disturbi del ritmo cardiaco, e quindi ad apprendere e praticare complesse metodiche di studio elettrofisiologico, oggetto  poi di molti lavori e di alcune monografie. Il destino, tuttavia, aveva in serbo per me ulteriori sorprese, chiamandomi a ricoprire una cattedra di gerontologia e geriatria che mi impose giocoforza, da un lato, di buttare a mare anche le ampie competenze cardiologiche, e dall’altro di acquisirne di nuove: intendo dire, trattandosi di geriatria,  conoscenze in campo riabilitativo, neurologico, psichiatrico, urologico, vulnologico e così enumerando.  Tutto ciò ad un’età in cui il cervello è meno agile ed il tempo a disposizione (a causa delle responsabilità dirigenziali) assai limitato.

Insomma, uno sforzo immane, ma senza particolare frutto, poiché le nuove competenze, che travasavo mano a mano nei miei allievi, non sortivano apprezzabili effetti pratici in un reparto che gli amministratori consideravano senza mezzi termini come “la pattumiera dell’ospedale”. E dicendo questo ho detto tutto, senza entrare per carità di patria  nel dettaglio delle vistose carenze di organico e della qualità delle prestazioni infermieristiche, che lascio soltanto immaginare. Per cui, dopo tanto faticare,  dopo aver percorso tutta questa strada in salita,  devo purtroppo constatare di aver praticato una medicina antica in gran parte inutile e di non essere stato al passo con i tempi.

 

Riprendendo comunque il filo del discorso, a fronte di tali mutamenti epocali avremmo atteso che l’università, considerata nel passato popolata dai migliori ingegni del paese, avesse modificato adeguatamente il contenuto culturale della disciplina. Ed invece, purtroppo, è davvero stupefacente constatare come ancor oggi, a distanza di 70 anni, poco o nulla sia cambiato nell’insegnamento della Medicina Interna.  Andando ad esaminare i programmi del Corso di Laurea ed ancor più quelli del Corso di Specializzazione c’è  da rimanere allibiti. Dentro c’è di tutto: a parte gli apparati più specifici (il cardiovascolare, gastrointestinale, respiratorio, endocrino, ecc) non vi è altro apparato che venga tralasciato, tra cui la cute, il sistema nervoso, l’orecchio interno ed esterno, le malattie  del sangue, tutte le patologie infettive dovute agli agenti patogeni più vari, quali ad esempio la lebbra, la nocardiosi, la sifilide, e tutti i funghi che il Padreterno ha disseminato su questa terra. Si leggono amenità, ad esempio riguardanti le sindromi da irsutismo e virilizzazione, le emocromatosi, le porfirie, e tante altre che per carità di patria vi risparmio.

Per dirla in breve in questi programmi e percorsi didattici compaiono patologie che l’internista di oggi non vedrà mai in vita sua; nella remota ipotesi che ne vedesse qualcuna, sarebbe per lui altamente consigliabile richiedere la consulenza di  uno specialista, anche nel fondato timore di incorrere in guai seri di natura medico-legale. Per esemplificare, non si capisce bene cosa ci stiano a fare le ipetricosi oppure la nocardiosi nel contesto delle capacità diagnostiche e terapeutiche dell’internista e sorge il sospetto che siano state inserite in quei programmi giusto perché “faceva figo”, oppure perché consentivano all’estensore di allungare il brodo o di dargli una nuance di discutibile sapidità. Fatto è che per l’internista la probabilità di imbattersi in un caso di nocardiosi sia pari a quella che una donna irsuta vada a farsi depilare da un tosacani. Ed è ancor più difficile comprendere tanta ricchezza dei programmi d’esame  a fronte di docenti monopatologia, che hanno costruito la loro carriera pubblicando articoli pseudoscientifici su un solo argomento, ma che poi ignorano dove stia di casa la pleurite.

E’ del tutto evidente la dissociazione schizofrenica tra la didattica e la realtà operativa. La maggior parte degli  ammalati  attualmente ricoverati nei reparti di Medicina Interna rientrano in una   gamma abbastanza limitata di patologie: si tratta, infatti, delle malattie più comuni sotto il profilo epidemiologico, quali ad esempio lo scompenso cardiaco, le comuni broncopneumopatie, il diabete mellito, l’ipertensione arteriosa,  e poche altre quasi sempre tra loro associate, come il lettore può facilmente comprendere.

Quale dovrebbero dunque essere il bagaglio culturale, e quali le abilità pratiche, dell’internista moderno che opera in ambiente ospedaliero? E’ presto detto: dovrebbe saper gestire assai bene le malattie più comuni, e semplicemente “sapere dell’esistenza” di altre assai meno comuni, per le quali ricorrerà (caso mai le vedesse) allo specifico specialista. Dal punto di vista pratico, dovrebbe buttare alle ortiche più del novanta per cento della semeiotica tradizionale, mantenendone soltanto alcune abilità fondamentali,  acquisendo al suo posto  la capacità di eseguire metodiche diagnostiche  di primo livello (soprattutto le varie ecografie d’organo). Per esemplificare, più che con il fonendoscopio dovrebbe girare in corsia con l’ecografo portatile. Dovrebbe mettere  sull’ultimo scaffale della libreria i vecchi trattati di medicina interna, l’Introzzi, il Fieschi, il Rasario per i pochi centenari superstiti, il Campanacci, il Teodori e l’Harrison per i novantenni d’oggi, il Rugarli, il Notarbartolo o simili per i cinquantenni, sostituendoli con più agili volumetti depurati da tutte le nozioni divenute per lui inutili. Un geriatra (un geriatra vero) a queste competenze dovrebbe associare quelle relative alle patologie di più frequente riscontro nelle fasce d’età avanzata (che non sono poche).

Per concludere. Come alla decrepita e spocchiosa  contessa Serbelloni Mazzanti Viendalmare di fantozziana memoria, alla Medicina Interna oggi è rimasto assai poco dell’antica classe e dell’antico prestigio. Con tutte le macchine portentose messe a disposizione dalla tecnologia la diagnosi differenziale è morta ed anche la semeiotica si sente poco bene. Si spera che rispetto a molti superspecialisti, che vedono il paziente come un cliente e come un numero, all’internista sia rimasto almeno un briciolo in più di umanità.

 

 

SCRITTI

 

 

  • Homo Maiellensis

https://www.dropbox.com/s/e2o782hdbibgix7/HOMO%20MAIELLENSIS.pdf?dl=0

Un illustre medico inglese e la moglie, appassionati di paleoantropologia, sono impegnati nella ricerca delle vestigia del mitico Homo Maiellensis. A seguito di una rovinosa caduta nei pressi della Grotta del Cavallone vengono ricoverati nell’ospedale di Sottomonte. Da qui si dipana una appassionante storia che vede coinvolti numerosi personaggi della cittadina di Chemomail City nonché del Comitato della Superiore Cultura. Un tragico evento impegna il maresciallo Centobuchi nella difficile ricerca della verità.

  • Una diagnosi difficile

https://www.dropbox.com/s/w4xpg2gvfsnbp2f/Una%20diagnosi%20difficile.pdf?dl=0

Un caso clinico di difficile soluzione. Ma in realtà la diagnosi è molto più semplice di quanto non appaia.

  • Due  storie trapanesi di pirati e di priori

https://www.dropbox.com/sh/2n3i1dlx3a0r2np/AAAOtoZ7uc-_owJ2Z0lG7biHa?dl=0

Vizi privati e pubbliche virtù. I soprusi del potere. Due storie  simili ma con un finale diverso ed imprevedibile.

Compleanno

Ho compiuto 80 anni. Ancora una volta ho battuto il mio record personale di anni vissuti senza morire neanche una volta. Comunque per me l’età non è importante visto che io non sono né un vino né un formaggio.

Non sono pochi i lati positivi della vecchiaia. E’ pur vero che con gli anni si hanno problemi di vista, ma posso assicurarvi che, pur avendo difficoltà a leggere il giornale senza occhiali, riesco a riconoscere benissimo i buzzurri da lontano. E’ pur vero che si hanno problemi di udito, ma è molto positivo dire di aver capito solo quello che mi pare e viceversa. E’ pur vero che di notte bisogna alzarsi anche più d’una volta per fare la pipì, ma è altrettanto vero che il mio caro amico, a parte questa, non ha altre esigenze.

Per il resto posso mangiare quando voglio, dormire quando voglio, accettare o rifiutare un invito quando voglio, e finalmente nessuno mi rompe più i cabasisi per propormi una assicurazione sulla vita. Il poco mi basta, del più non so che farmene, del giudizio degli altri me ne posso bellamente “stracatafottere”.

A questo punto non ho nulla da chiedere alla vita, ma alla morte si: di fare con calma perché io non ho alcuna fretta. Ringrazio di cuore gli amici che mi hanno fatto gli auguri. Risponderò a tutti singolarmente, ma quando ne avrò voglia. Penso che anche voi conveniate che sia opportuno impiegare questi giorni in maniera più proficua. Cioè, come dicono i giovani, “cazzeggiando”. Non a caso il saggio dice che “un anno di un giovane non è tanto prezioso quanto un giorno di un vecchio”.

Nel rinnovare i miei ringraziamenti vi garantisco che lotterò con le unghie e con i denti (sarebbe più giusto dire con la dentiera) per arrivare a 100 anni, anche a costo di restarci secco.

Vi accomuno in un forte abbraccio.

Per le vie della città

Storie aneddoti e personaggi trapanesi dalle origini al novecento

Trattasi di un parallelepipedo di 20 x 13 x 3 cm, del peso di circa 400 grammi; 450 pagine suddivise in 80 capitoli; euro 15; edito da Margana Edizioni – Via Nausica 52 – 91100 Trapani

Margana.edizioni@gmail.com

Tel. 0923-29364

La carta è di buon qualità e vale da sola la spesa.

 

 

Alcune odi di Quinto Orazio Flacco

 

Da alcuni ricordato come poeta della serenità classica e dell’equilibrio dei sentimenti, Orazio in realtà fu un uomo ansioso,  malinconico,  forse a tratti depresso, e da ciò  nasce l’angoscia sfibrante della noia, sulla quale si innesta il senso cupo della morte. Se non vi è alternativa alla morte (l’unica cosa certa – ultima linea rerum –), bisogna pur trovare antidoti e compensi, quali  ad esempio  la  convinta adesione alla semplicità del vivere, al rifiuto del superfluo, al rifuggire dagli eccessi e dall’apparire, al preferire la fresca aria mattutina della campagna e le verdure  dell’orto  all’aria greve della suburra ed ai cibi elaborati delle mense dei principi: una filosofia spicciola, quella dei giorni feriali, la famosa filosofia del carpe diem.  Con la consapevolezza, tuttavia, che si tratta di un compenso provvisorio,  un punto di equilibrio instabile e precario.  Orazio è convinto che non ci è dato nulla che rimanga se non nella memoria.  Ma la memoria ha il sostanziale difetto di farci riflettere su un passato immodificabile: mantiene il piacere delle gioie trascorse ma ha in se il dato negativo del rimpianto.

Perché Orazio a distanza di duemila anni continua a parlare con noi?  Semplice: pur confidando nei poteri salvifici  della scienza, siamo consapevoli che essa nulla può di fronte all’ultima “linea delle cose”. Cerchiamo di rimuoverla, di occultarla, di seppellirla sul fondo della coscienza, questa ultima linea rerum, ma senza successo. Ci impegniamo allora in un frenetico attivismo, per distrarci, per dimenticare, ma  a differenza d’Orazio non disponiamo di strumenti  idonei di compenso. Antidepressivi ed ansiolitici non hanno lo stesso potere lenitivo del carpe diem.

Vale dunque la pena di rileggerlo questo eccelso poeta, riproponendo alcune  odi che fanno maggiormente riflettere, come ad esempio quella  a  Sestio, cui  Orazio ricorda che  con il giungere della primavera è saggio festeggiare il risveglio della natura, poiché  non è lontano il giorno in cui bisognerà entrare nella casa degli Inferi;  o quella a Leuconoe, giovane ed inesperta fanciulla, cui Orazio rammenta la fugacità del tempo e suggerisce di  “cogliere l’attimo”; o quella a Grosfo, che  si bea delle sue ricchezze e vive nel lusso, ma non per questo è più felice del poeta , che  in sorte ha avuto solo un campicello, ma in compenso il dono sublime della poesia.

Tradurre Orazio, orafo della parola,  insostituibile nella sua posizione e nel suo contesto, essenziale e densa di un significato proprio,  è impossibile. Lo si capisce anche visivamente considerando quante più parole sia   necessario adoperare in una traduzione non letterale ma di senso e di atmosfera. E’ quindi  lapalissiano che a confronto dell’originale la traduzione è una “ciofeca” (bevanda post-bellica di un simil-caffè fatto coi fondi dei  caffè precedenti, d’orzo per giunta), ma pur sempre meglio di niente per scaldare un po’ il cuore, come la ciofeca scaldava il pancino. E quindi  chi  conosce il latino  si goda  l’originale, chi non lo conosce si accontenti della ciofeca.

 

I,4 – A Sestio

 

Solvitur acris hiems grata vice veris et Favoni

trahuntque siccas machinae carinas,

ac neque iam stabulis gaudet pecus aut arator igni

nec prata canis albicant pruinis.

 

 

 

 

Iam Cytherea choros ducit Venus imminente luna

iunctaeque Nymphis Gratiae decentes

alterno terram quatiunt pede, dum gravis Cyclopum

Volcanus ardens visit officinas.

 

 

 

Nunc decet aut viridi nitidum caput impedire myrto

aut flore, terrae quem ferunt solutae;

nunc et in umbrosis Fauno decet immolare lucis,

seu poscat agna sive malit haedo.

 

 

 

Pallida Mors aequo pulsat pede pauperum tabernas

regumque turris. O beate Sesti,

vitae summa brevis spem nos vetat inchoare longam.

Iam te premet nox fabulaeque Manes

et domus exilis Plutonia: quo simul mearis,

nec regna  vini sortiere talis,

nec  tenerum Lycidan mirabere, quo calet iuventus

nunc omnis et mox virgines tepebunt.

 

 

 

Si  scioglie il gelo dell’inverno

al soffio  della primavera,

gli argani spingono verso il mare

le barche in secca,

il gregge più non gode il caldo dell’ovile,

il contadino del focolare,

ed i campi più non biancheggiano pallidi di brina.

 

Al  chiarore sospeso  della luna

Venere conduce le danze,

e le Ninfe e le Grazie leggiadre

battono   la terra con alterno piede

mentre Vulcano  osserva tra  le fiamme

il faticoso lavoro dei Ciclopi.

 

Ora è tempo di cingere il capo lustro d’unguenti

Con un serto di mirto verde

O con i fiori che sbocciano dalla terra dischiusa.

Ora è tempo di immolare a Fauno

in un bosco ombroso

una agnella od un capretto se lo preferisce.

 

La pallida Morte bussa  equanime

ai tuguri dei poveri ed alle torri dei principi.

O felice Sestio, la brevità della vita

ci vieta di nutrire una lunga speranza.

Già ti son  vicini la notte e l’anime dei morti

e la diafana casa di Plutone:

quando vi entrerai, non t’avverrà per  sorte

d’essere eletto  signore del  convito

né  potrai ammirare il tenero Licida,

per cui adesso si infiammano i giovani

e   tra non molto sospireranno anche  le vergini.

 

 

I,9 – A Taliarco

 

Vides ut alta stet nive candidum

Soracte, nec iam sustinent onus

Silvae laborantes geluque

Flumina constiterint acuto.

 

Dissolve frigus ligna super foco

Large reponens atque benignius

Deprome quadrimum Sabina,

o Taliarche, merum diota.

 

Permitte divis cetera, qui simul

Stravere ventos aequore fervido

Deproeliantis, nec cupressi

Nec  veteres agitantur orni.

 

 

Quid sit futurum cras fugere quaerere et

Quem fors dierum cumque debit lucro

Adpone, nec dulcis amores

Sperne, puer, neque tu corea,

donec virenti canizie abest

morosa. Nunc et Campus et areae

lenesque sub noctem susurri

composite repetantur hora,

nunc et latentis proditor intumo

gratus puellae risus ab angulo

pignusque dereptum lacertis

aut digito male pertinaci.

 

 

Guarda com’è bianco di neve  il Soratte,

ed i rami delle selve che si piegano

affaticati  sotto il peso

ed  i  fiumi rappresi  dall’intenso gelo.

 

Scaccia il freddo, Taliarco,

metti  molta legna al focolare,

e versa in abbondanza  vino vecchio

da un’anfora sabina.

 

Lascia il resto agli dei,

ora che  si  placano  i venti

sul mare in burrasca,

né più si agitano le chiome dei cipressi

o dei frassini cadenti.

 

Quale sia il futuro domani  non chiedere

E vivi come un dono ogni giornata,

Quale che sia, la sorte ti conceda,

né disprezzare, ragazzo, i dolci amori e le danze

finchè lontana è la vecchiaia

dalla tua verde età.

Ora  ti chiamino i giochi nell’arena

e si ripetano nella notte

i teneri sussurri, il dolce riso

che ti rivela l’angolo segreto

dove si nasconde il tuo amore

ed il monile  che le togli dal braccio

o da un dito che resiste appena.

 

I, 11 – A Leuconoe

 

Tu ne quaesieris, scire nefas, quem mihi, quem tibi

Finem di dederint, Leuconoe, nec  Babylonios

Temptaris numeros. Ut melius quicquid erit pati,

 

 

Seu pluris hiemes seu tribuit Iuppiter ultimam,

Quae nun oppositis debilitate pumicibus mare

Tyrrhenum: sapias, vina liques et spatio brevi

Spem longam reseces. Dum loquimur, fugerit invida

Aetas: carpe diem, quam minimum credula postero.

 

 

 

Tu non chiedere – non è dato saperlo –

qual destino gli dei abbiano assegnato

a te ed a me, Leuconoe,

né lasciarti tentare dagli indovini.

 

E’ meglio accettare la sorte che ci attende

sia che Giove ci conceda molti inverni,

sia che sia questo  l’ultimo

che ora sferza le scogliere del mare Tirreno.

Sii saggia, filtra i vini,

la breve durata della vita

impedisce di coltivare una lunga speranza.

Mentre parliamo,

il tempo invidioso è già fuggito.

Godi il presente

Meno che puoi  fidando nel domani.

 

 

 

I,25 – A Lidia

 

Parcius iunctas quatiunt fenestras

Iactibus crebris iuvenes protervi,

Nec tibi somnos adimunt amatque

Ianua limen,

Quae prius multum facilis movebat

Cardines. Audis minus et minus iam:

“Me tuo longas pereunte noctes,

Lydia, dormis?”

 

Invicem moechos anus arrogantis

Flebis in solo levis angiportu,

Thracio bacchante magis

Sub interlunio vento,

cum tibi flagrans amor et libido,

quae solet matres furiare equorum,

saeviet circa iecur ulcerosum

non sine questu,

laeta quod pubes hedera virenti

gaudeat pulla magis atque myrto,

aridas frondes hiemis sodali

dedicet Euro.

 

 

Sempre di meno giovani protervi

Lanciano sassi alle tue finestre,

né ti rubano  il sonno.

E restano  chiusi i battenti della porta

che prima scivolavano facilmente sui cardini.

Ormai meno, sempre meno, odi:

“Tu  dormi, Lidia, mentre io mi consumo

Inquieto nella notte?”

 

In un vicolo deserto piangerai  anche tu

vecchia e derisa  dagli amanti,

quando il vento  di Tracia urla forte

nelle notti senza luna,

ed il fuoco del desiderio,

la libidine che squassa  le cavalle,

strazierà il tuo ventre

strappandoti un lamento,

mentre i  giovani preferiranno lieti

la verde edera  ed il mirto bruno,

e getteranno nell’Ebro, amico dell’inverno,

le foglie secche.

 

II,14 – A Postumo

Eheu fugaces, Postume, Postume,

labuntur anni nec pietas moram

rugis et instanti senectae

adferet indomitae que morti,

 

 

non, si trecenis quotquot eunt dies,

amice, places inlacrimabilem

Plutona tauris, qui ter amplum

Geryonen Tityonque tristi

Compisci unda, scilicet omnibus

Quicumque terrae munere vescimur

Enaviganda, sive reges

Sive inopes erimus coloni.

 

Frustra cruento Marte carebimus

Fractisque rauci fluctibus Hadriae,

frustra per autumnos nocentem

corporibus meruemus Austrum.

 

Visendus ater flumine languido

Cocyto errans et Danai genus

Infame damnatusque longi

Sisyphus Aeolides laboris.

 

Linquenda tellus et domus et placens

Uxor, neque harum quas colis arborum

Te praeter invisas cupressos

Ulla brevem dominum sequetur.

 

 

Absumet heres Caecuba dignior

Servata centum clavibus et mero

Tinguet pavimentum superbo,

pontificum potiore cenis.

 

 

Ahimè, troppo in fretta, Postumo, mio Postumo,

si consumano gli anni

né le tue preghiere fermeranno

le rughe o la vecchiaia che avanza

e la invincibile morte,

 

neppure, amico mio,

se  tu  volessi impietosire

con trecento tori ogni giorno

l’insensibile  Plutone, che avvinghia inesorabile

Gerione e Tizio dentro l’onda buia,

quella che solcheremo anche noi

quanti nutre la terra coi suoi doni,

dal più povero al più potente.

 

Invano eviteremo le guerre sanguinose

O le scogliere dove si frange l’Adriatico in tempesta.

Invano fuggiremo

Dal nocivo vento dell’autunno.

 

Tutti vedremo il nero Cocito

Serpeggiare  con la sua torpida corrente

E la scellerata stirpe di Danao

E Sisifo condannato alla fatica eterna.

 

Dovrai  lasciare la terra e la casa

E la donna che ami

Né alcuno degli alberi che ora coltivi

Ti seguirà

Ad eccezione del  lugubre cipresso.

 

Più degno  erede berrà il Cecubo

Che ora  custodisci con cento chiavi

E d il superbo vino

Che neppur  trovi  alle cene dei pontefici

macchierà il pavimento.

 

II,16 – A Grosfo

Otium divos rogat in patenti

Prensus Aegaeo, simul atra nubes

Condidit lunam neque certa fulgent

Sidera nautis;

 

 

otium bello furiosa Thrace,

otium Medi npharetra decori,

Grosphe, non gemmis neque purpura

Venale neque auro.

 

Non enim gazae neque consularis summovet lictor miseros tumultus

Mentis et curas laqueata circum

Tecta volantis.

 

 

 

 

Vivitur parvo bene, cui paternum

Splendet in mensa tenui salinum

Nec levis somnos timor aut cupido

Sordidus aufert.

 

Quid brevi  fortes iaculamur aevo

Multa? Quid terras  alio calentis

Sole mutamus? Patriae quis exul

Se quoque fugit?

 

 

 

Scandit aeratas vitiosa navis

Cura nec turmas equitum relinquit,

ocior cervi set agente nimbos

ocior Euro.

 

Laetus in praesens animus quod ultra est

Oderit curare et amara lento

Temperet risu: nihil est ab omni

Parte beatum.

 

 

Abstulit clarum cita mors Achillem,

Longa Tithonum minuit senectus,

Et mihi forsan, tibi quod negarit,

porriget hora.

 

 

Te greges centum Sicualaeque circum

Mugiunt vaccae, tibi tollit hinnitum

Apta quadrigis equa, te bis Afro

Murice tinctae

Vestiunt lanae: mihi parva rura

Et spiritum Graiae tenuem Camenae

Parca non mendax dedit et malignum

Spernere volgus.

 

Pace chiede agli dei

Chi viene colto

Dalla tempesta nell’Egeo

Quando le nere nubi  nascondono la luna

E non più chiare ai naviganti

Risplendono le stelle;

pace chiedono i Traci così feroci in guerra,

pace chiedono  i Medi

ornati di belle faretre.

 

 

Né con gemme, né con oro, né con porpora,

o Grosfo, potrai comprare la pace,

né le ricchezze né i littori dei consoli

potranno rimuovere

gli infelici travagli della mente

e le angosce dell’animo

che volano anche sotto i tetti dorati.

 

Vive bene con poco quegli cui splende

Sulla mensa la saliera paterna

E non toglie il sonno la paura

Od  insana ambizione.

 

Perché a tanto ci affanniamo

Se breve è la vita?

Perché cerchiamo altre terre

Scaldate da altro sole?

Chi esule dalla patria fugge se stesso?

 

 

Più veloce dei cervi,

più veloce di Euro che scatena le tempeste

la cupa angoscia sale  anche sulle ferree navi

né lascia l’orde dei cavalieri.

 

Lieto gode del presente

Chi non si cura di pensare inquieto

Al domani

E stempera con un lieve sorriso le amarezze:

felicità perfetta non esiste.

 

Una morte precoce rapì il famoso Achille

Una lunga vecchiaia afflisse Titone

E forse a me il destino

Concederà  quel  che a te è negato.

 

 

Cento e cento giovenche di Sicilia

Muggono  intorno a te,

Per  te alza alto il nitrito

La puledra del cocchio,

e ti vestono  lane  tinte  di porpora africana.

A me  la Parca non bugiarda

Diede soltanto in sorte  un campicello

E l’armonia sottile della musa greca

E per il volgo miserabile  il disprezzo.

 

La ricerca sui telomeri (un calembour)

 

Non passa giorno che non  compaia sui giornali la notizia della scoperta epocale di un qualche elisir di lunga vita: potenti anti-ossidanti, terapie ormonali, cellule staminali e simili.  Sulla dieta e l’esercizio fisico il martellamento è continuo. Da qualche tempo gli scienziati stanno scomodando anche il microbiota, quei miliarducci di batteri ospiti del nostro intestino, di cui l’umanità, pur avendoci a che fare quotidianamente (o quasi), ha ignorato per millenni l’importanza.  Del resto, che  dire? Anche i giornalisti tengono famiglia e qualcosa la devono pur scrivere.

 

Comunque, ultimamente sono di moda i telomeri.  Per i pochissimi che non conoscono l’argomento, va precisato che il telomero è la regione terminale di un cromosoma composta di DNA altamente ripetuto che protegge il cromosoma stesso dal deterioramento o dalla fusione con cromosomi confinanti.  Esso ha un ruolo determinante nell’evitare la perdita di informazioni durante la duplicazione dei cromosomi.  L’invecchiamento comporta un progressivo accorciamento dei telomeri ad ogni ciclo replicativo, ed a ciò segue una progressiva riduzione delle funzioni delle cellule, degli organi e dei sistemi. A lato dell’invecchiamento, altre condizioni, tra cui lo stress ossidativo, un cattivo funzionamento del sistema immunitario, il diabete, l’obesità viscerale, ecc. influiscono negativamente sulla lunghezza dei telomeri. Per fortuna un particolare enzima, detto telomerasi, in certe condizioni permette al telomero di autoripararsi.  Questo in pillole e soldoni, ma  chi volesse saperne di più può contattare qualche illustre genetista o più semplicemente informarsi sul Web, dove è disponibile cospicuo materiale sull’argomento.  L’ultima trovata in questo settore è quella della dottoressa Elizabeth Parrish, che sulla base di positivi esperimenti sui topi,   ha praticato su se stessa una non meglio precisata “Telomerase Therapy”. I risultati sono stati clamorosi (https://bioviva-science.com/): “Telomers in her white blood cells had lengthened by more than 600 base pairs which implies they had extended by the equivalent of 20 years. A full-body MRI imaging revealed an increase in muscle mass and reduction in intramuscular fat. Other tests indicate that Parrish now has improved insulin sensitivity and reduced inflammation levels.”

 

Il ritmo incessante con cui si susseguono gli studi e la loro puntuale divulgazione sui media evidenziano senza alcun dubbio l’importanza che la lunghezza del telomero riveste per l’uomo moderno. Alcune considerazioni dettate dal buonsenso   sembrano  tuttavia opportune :

 

  • Premesso che è decisamente preferibile avere il telomero lungo piuttosto che corto, è opportuno aggiungere che lo stesso deve possedere adeguate caratteristiche funzionali (solidità, durata e tempi di recupero), che alla fine sono quelle che  contano.
  • A lato dei vari fattori che possono incidere sulla lunghezza e funzione dei telomeri (in precedenza elencati) altri meritano menzione:  tra questi, in particolare, i fattori razziali, visto che la vulgata popolare attribuisce la palma del primato agli uomini di razza nera, relegando quelli di razza gialla a fanalino di coda.
  • Ovviamente, nell’ambito di una stessa razza, è presente ampia variabilità individuale, legata al patrimonio genetico. Da questo punto di vista la Natura è stata democratica, visto che ci sono dei morti di fame che hanno dei telomeroni da far paura e dei riccastri con dei telomerini piccini piccini da arrossire per la vergogna.
  • Non escludo che questi ultimi, che per i loro telomeri darebbero un occhio della testa, come l’esempio del Berlusca chiaramente dimostra, siano i primi a sostenere con generosità le ricerche di ingegneria genetica di cui sopra si riferisce.
  • Comunque, a lato delle terapie più innovative, esistono vecchi rimedi. Infatti, con buona pace della “Telomerase Therapy”, come la fisiologia insegna, “la funzione fa l’organo” e quindi è lecito presumere che un telomero sottoposto ad un regolare allenamento (né troppo né troppo poco, per non scivolare nell’under e nell’over-training) possa mantenersi valido più a lungo. Sembra questa la strada maestra da percorrere, seppure, arrivati ad un certo punto, appare saggio lasciare in pace il buon telomero senza sfruculiarlo ulteriormente quando accusa evidenti segnali di defaillance.
  • Ora io non vorrei passare per un bieco oscurantista che nega il progresso e si accanisce contro “le magnifiche sorti e progressive” di leopardiana memoria, ma per il momento ci penserei più d’una volta ad affidarmi alle cure miracolose di Bio-Viva, accontentandomi del mio stato, in attesa di nuove scoperte, di cui eventualmente si avvantaggeranno le generazioni future.

Maestri di scienza e di vita: una razza pressochè estinta

Avendo conseguito la laurea in Medicina nel lontano 1962, ed avendo successivamente percorso tutti i gradini della carriera accademica, ho avuto modo di assistere alla evoluzione della figura del Clinico Universitario nell’arco di oltre mezzo secolo, dall’epoca in cui esistevano i Baroni ed i Maestri, all’epoca attuale, in cui non esistono più né gli uni né gli altri. Credo di poter illustrare con obiettività i cambiamenti che sono avvenuti, senza con questo esprimere alcun giudizio di merito. I più vecchi giudichino se le mie parole corrispondono alla verità; i più giovani apprendano qual’era lo stato della medicina accademica in tempi lontani.

Negli anni ’60 del secolo trascorso di baroni in giro ce n’erano molti. Si può dire che lo fossero un pò tutti quelli che dirigevano un Istituto nel contesto di un Policlinico Universitario. Lo consentivano l’assetto organizzativo della sanità pubblica e le leggi vigenti. Si cominci col dire che le conoscenze mediche erano alquanto limitate e di conseguenza esistevano pochi reparti, con prevalenza di quelli di tipo generalistico. Prendendo ad esempio la Medicina Interna, in quasi tutti gli Atenei esistevano soltanto due cattedre e due istituti, quelli  di Clinica e di Patologia Medica, grandi contenitori  cui  afferivano le patologie dei più vari organi e sistemi. Esistevano quindi soltanto due clinici e non la miriade degli specialisti e superspecialisti dei tempi d’oggi.

Le amministrazioni ospedaliere non mettevano becco nella gestione degli Istituti universitari, peraltro pressoché autonomi sotto il profilo gestionale (ad es. con proprio laboratorio e propria radiologia). Le rette che  gli Enti mutualistici versavano per ogni loro assistito finivano in buona parte nelle tasche del Direttore.  Vigeva la regola del 4:2:1. In parole povere, la somma veniva suddivisa in sette quote, quattro delle quali destinate al Direttore. Se (poniamo) gli aiuti erano due, ad essi spettava una quota cadauno; se gli assistenti erano sei, ad ognuno spettava un sesto di una parte. Fate voi i conti e troverete che con l’esempio riportato al direttore andava il 57%, ad un aiuto il 14% e ad un assistente lo 2.33% dell’intera contribuzione. Ai cospicui introiti derivanti dalle degenze andavano a sommarsi quelli delle prestazioni ambulatoriali, che  potevano raggiungere cifre ragguardevoli. A titolo di esempio, il Centro Antidiabetico della Clinica Medica di Bologna, dove sono stato Assistente Volontario per ben 8 anni,  produceva un incasso annuale di 90 milioni delle vecchie lire, che negli anni ’60 era l’equivalente del costo di quattro o cinque appartamenti. Altra fonte di ricchezza per i baroni era l’attività libero- professionale, cospicua per gli internisti di grido, ma ancor più per i chirurghi, che dal taglio di una pancia potevano ricavare quel che un internista guadagnava in 10 ore di ambulatorio.

Al potere economico si sommava quello accademico: i baroni gestivano le scuole di specializzazione, molto richieste in una fase storica in cui di specialisti ce n’erano ben pochi. Essi inoltre avevano la possibilità di attribuire il prestigioso titolo di Libero Docente a coloro che rimanevano per un certo numero di anni negli Istituti universitari  prestando gratuitamente la loro opera. In tal modo i baroni potevano disporre di  una formidabile  forza lavoro, numerosa, competente e motivata. Altro punto di forza del potere baronale era la possibilità di gestire a loro piacimento  i primariati ospedalieri della disciplina, che si rendevano liberi, o venivano istituiti ex-novo nelle  città appartenenti alla loro area di influenza. Le amministrazioni locali non avevano voce in capitolo e non di rado erano gli stessi presidenti degli ospedali a recarsi dal barone di turno a che dotasse il loro nosocomio di un bravo primario.  Insomma, la figura del barone era caratterizzata da un considerevole potere economico, politico e gestionale, cui si associava una buona dose di alterigia e spesso di arroganza, con l’ulteriore aggravante di una decisa propensione al nepotismo. Bisogna comunque riconoscere ai baroni dell’epoca alcuni aspetti positivi, quali il valore professionale, il rispetto abituale della parola data (a suggello di un reciproco patto con gli allievi), ed il riconoscimento del merito dei più bravi, per lo stesso motivo di cui sopra, ma non escludo anche per vanagloria, e cioè per poter vantarsi di essere a capo di una eccellente scuola medica.

Altro discorso quando si parla di Maestri. Di questi  ne giravano molti di meno. Per dir meglio, molti venivano omaggiati con questo termine, ma soltanto pochi lo erano per davvero. Per essere un vero Maestro ci volevano ben altre doti. Lo erano, ad esempio, i clinici capaci di elaborare idee innovative nella loro specifica disciplina, o di prevederne gli orizzonti ed i futuri sviluppi, o dotati di una superiore cultura, assai spesso debordante dal campo scientifico e sconfinante nella letteratura e nell’arte, ed infine quelli dotati di considerevole carisma ed acume clinico o di forbita e suadente oratoria.  Per quanto io possa riferire per diretta conoscenza fu un grande Maestro, oltre che un grande barone, Luigi  Condorelli,  Clinico Medico di Roma.  La sua sfera di influenza accademica copriva anche i tre atenei siciliani di Palermo, Messina e Catania, quello di Bari, ed in parte  quello  partenopeo. Questo immenso potere accademico gli consentì di sistemare una falange di primari ospedalieri, e di mettere in cattedra uno stuolo di allievi, tuttavia quasi tutti di modesta caratura (alcuni  men che modesti), alla stregua di un moderno Caligola, che si vantava di aver nominato senatore il suo cavallo: il che torna certamente a suo demerito, e testimonia la sua tracotanza, seppur con la giustificazione che quelli aveva sottomano e non poteva certamente cavar sangue dalle rape. Ma Luigi Condorelli fu anche Maestro. Lo fu per le sue frequentazioni internazionali in un’epoca in cui era raro che qualcuno mettesse il naso fuori casa,  per aver applicato con convinzione il metodo sperimentale, eseguendo personalmente studi sugli animali fino ad età avanzata,  e  per aver  portato significativi progressi in vari campi della cardiologia, come ad esempio le sindromi mediastiniche, lo scompenso cardiaco e l’angina pectoris. Un grande Maestro fu anche Domenico Campanacci, Patologo Medico di Bologna, fine semeiologo, che intuì per primo la evoluzione tecnologica della medicina e quindi il nascere delle discipline specialistiche, alle quali avviò tutti i suoi allievi, dimostrando al contempo altruismo e modestia, accettando cioè  che i suoi allievi in specifici settori ne sapessero molto di più di lui.   Fu un Maestro anche Antonio Lunedei, Patologo Medico di Firenze, acutissimo osservatore, dotato di fervida fantasia, da cui scaturirono idee brillanti ed avveniristiche sulle sindromi diencefaliche e sulla importanza della flogosi in molteplici patologie internistiche. Accanto a questi giganti della medicina, che a vario titolo incrociai durante il periodo della mia formazione, devo dire che in certo qual modo  Maestro fu anche il mio capo, il professor Sergio Lenzi,  per le sue sopraffine capacità  semeiologiche e diagnostiche, per la sacralità d’esecuzione dell’atto clinico, e per la  brillante oratoria. Fu anche un precursore, avendo intuito l’importanza dell’iperaldosteronismo e dell’attivazione del sistema adrenergico nella patogenesi dello scompenso cardiaco, senza tuttavia presumere, come oltre venti anni dopo avvenne, che il blocco di questi sistemi endocrini avrebbe avuto un rilevante impatto terapeutico. Se dunque i baroni si distinguevano per l’uso tracotante e spocchioso del potere accademico e professionale, cifre distintive dei Maestri erano l’originalità del pensiero, il carisma, la cultura, cui si associava non di rado uno stile di vita profondamente etico,  anche se talvolta con qualche nota di eccentricità.

Le figure dei baroni e dei maestri cominciarono a scolorire ai miei occhi a partire dagli anni ’70. E’ pur vero che entrando nella maturità si diventa più critici e meno facilmente suggestionabili, spesso più supponenti e meno disposti a riconoscere la superiorità degli altri; ma è altrettanto vero che  molte cose mutarono così rapidamente da portare alla scomparsa sia dei baroni che dei maestri.  Un primo radicale cambiamento avvenne a causa del prepotente ingresso della politica nella gestione della sanità pubblica. Negli anni ’70 il progresso tecnologico, l’espandersi delle conoscenze, il proliferare delle discipline specialistiche e sub specialistiche, con la conseguente crescita esponenziale delle strutture ospedaliere (e sanitarie in generale) resero evidente agli occhi dei politici che in quel settore cominciavano a girare tanti soldi, e si concentrava molto potere. La possibilità di controllare le assunzioni del personale, e quella di gestire appalti milionari, rendevano gli ospedali una importante fonte di consenso, oltre che di arricchimento personale: una mucca da mungere e quindi da sottrarre rapidamente all’influenza degli organi accademici. I professori universitari furono gradualmente estromessi dalle commissioni di concorso per l’assunzione dei nuovi primari ed in genere del personale ospedaliero; i primari ospedalieri di ruolo, che per qualche tempo ebbero un minimo di voce in capitolo, furono poi anch’essi estromessi, ed ormai da tempo sono stati relegati ad un patetico ruolo ancillare: quello di redigere  semplicemente il “profilo” dei candidati, sulla cui lista il manager (anch’esso soggetto ad un controllo politico superiore) effettua poi la scelta definitiva.

Il progresso della tecnologia ha relegato in secondo piano le conoscenze teoriche. L’arte della semeiotica e del ragionamento diagnostico è diventata merce fuori mercato e quindi  definitivamente obsoleta, soppiantata da attrezzature sofisticate, che consentono di giungere a diagnosi sempre più precise e di effettuare interventi terapeutici  impensabili nel passato. Il medico famoso dei tempi moderni non è più il grande clinico, eccellente  nella observatio et ratio, bensì il fortunato possessore di uno strumento d’avanguardia, oppure il depositario di una particolare manualità in uno specifico sub-settore della medicina. Gli esempi potrebbero essere infiniti, per cui non vale la pena citarne alcuno. Ad un primario non viene più richiesta cultura, bensì capacità manageriale, ed i migliori appaiono quelli che, per appartenenza politica od affiliazione ad associazioni che contano, riescono a procacciarsi le macchine migliori, il reparto più elegante ed il personale medico, tecnico ed ausiliario più qualificato.

D’altra parte, il progresso delle conoscenze e la graduale trasformazione della medicina da arte a scienza ha portato ad una codificazione dei comportamenti da osservare a fronte di specifiche situazioni cliniche. Ne sono scaturite le cosiddette Linee Guida, che i medici sono tenuti ad osservare, non solo perché esse indicano la strategia migliore da adottare, ma anche per il concreto timore di ritorsioni medico-legali in caso di mancata applicazione.  All’autorità del clinico di un tempo (il famoso “ipse dixit”) si è sostituita l’autorità delle Linee Guida stilate dalle  Associazioni  Scientifiche, spesso non esenti da distorsioni o forzature dettate da BigPharma o dalle leggi del mercato.

La moltiplicazione dei posti di apicalità ha comportato una frammentazione del potere in tanti minuscoli segmenti: per esemplificare,  ad una Clinica Medica di un tempo, con duecento letti, tutte le specialità incorporate ed un solo direttore, si contrappongono oggi diecine di unità operative, in cui prevalgono quelle di tipo specialistico o sub specialistico, quasi sempre designate  pomposamente con l’epiteto di Centri di alta specializzazione o di eccellenza. La figura del barone è quindi definitivamente scomparsa ed  al massimo si può parlare di  manager ben inseriti nei gangli della politica, e quindi anch’essi con condizionato potere.

Spostandoci sul versante accademico, le riforme universitarie che si sono succedute nel tempo hanno abbassato notevolmente la caratura della classe docente. Tramontata da tempo l’università di elite, e subentrata l’università di massa, anche il corpo docente si è  livellato verso il basso. Come scrisse un arguto giornalista, “visto che nel calcio e nella lirica non ci sono abbastanza Totti e Pavarotti per tutti gli stadi e tutti i teatri, diventa fatale che in alcuni si esibiscano dei brocchi, reclutati da un compiacente impresario di turno”. E nel caso specifico l’impresario di turno può essere riportato ai nuovi sistemi di selezione e reclutamento della classe docente, tanto garantisti  da consentire agli atenei l’assegnazione di una qualsivoglia cattedra ad un qualsivoglia personaggio, anche se di modestissimo valore.  William Arthur Ward, un noto editorialista americano, ebbe a scrivere: “The mediocre teacher tells. The good teacher explains. The superior teacher demonstrates. The great teacher inspires.”  Si potrebbe aggiungere che the modern teacher “legge” (le diapositive naturalmente e per di più sempre quelle).  Se poi andiamo a considerare i “maestri di vita” … beh … da quello che si apprende dai giornali forse è meglio non approfondire.

Questo lo stato dell’arte, a prescindere da giudizi di merito che sarebbero assolutamente fuori luogo, perché le condizioni storiche sono radicalmente mutate. In entrambe le situazioni, quelle di un tempo e quelle d’oggi, erano e sono presenti molte inqualificabili storture. Tuttavia (e questa è una mia personale opinione), mentre in passato depositari del potere erano personaggi arroganti quanto si vuole, ma comunque di un certo livello culturale, oggi lo sono politici ed amministratori  ingordi, corrotti e soprattutto ignoranti.

Ho detto in precedenza che oggi non esistono più né i baroni né i maestri. Un giudizio  drastico, poiché qualche Maestro in giro forse c’è ancora.  Ed a tal proposito vorrei concludere questo scritto con un personale omaggio a quel grande che fu il Professor Francesco Mario Antonini, un vero pioniere nel campo della Gerontologia e Geriatria. Negli anni ’50 si trattava di una disciplina al suo esordio culturale, ed Antonini capì tutto fin dall’inizio. Capì che essa doveva riguardare l’intensività delle cure, ma ancor di più la cronicità e la perdita dell’autosufficienza, e che l’assistenza si doveva articolare in una rete di servizi differenziati, diretti a soddisfare le molteplici esigenze dell’anziano malato. Non ostacolato da illuminati amministratori (forse anche distratti o poco sgamati)  riuscì ad  istituire nel policlinico di Careggi una Unità Coronarica tra le prime in Italia,  affidò ad un valido allievo (Alberto Baroni)  un innovativo servizio di riabilitazione e riattivazione geriatrica (I Fraticini), istruì un altro allievo (Antonio Bavazzano) alla creazione nell’area pratese di un efficace sistema integrato di assistenza, basato su cure domiciliari, intermedie ed ospedaliere. Tutto questo in tempi in cui di Geriatria si cominciava appena a parlare. Accanto a ciò Antonini comprese che progressi conoscitivi con ricadute pratiche si potevano conseguire attraverso i grandi studi epidemiologici di tipo longitudinale, ed avviò a questa disciplina il migliore dei suoi allievi,  Luigi Ferrucci, che sarebbe diventato leader mondiale nel settore, fino ad assumere la direzione del Baltimore Longitudinal Aging Study e poi del National Institute of Aging. Ma l’intuizione maggiore la ebbe vaticinando che ogni tentativo di una efficace assistenza geriatrica sul territorio nazionale si sarebbe fatalmente infranto contro le incapacità della politica e l’ingordigia degli affaristi, che avrebbero visto il problema della vecchiaia come una ennesima occasione di guadagno. Inventò così la Geragogia, cioè  l’educazione al buon invecchiamento, insegnando che ognuno (se vuole) può costruirsi una buona vecchiaia.  A questi meriti di tipo scientifico e sociale, Francesco Mario Antonini associava una accattivante oratoria  ed una profonda cultura umanistica, di cui diede testimonianza con la sua opera “L’età dei capolavori”, documentando quanto innovative potessero essere le capacità espressive dei grandi artisti nella fase declinante della loro vita. Gulliver nel paese dei lillipuziani, si tenne sempre lontano dalle beghe  del mondo accademico, snobbandone i poco edificanti inciuci. Per  tutto questo io credo che Francesco Mario Antonini sia uno dei pochi moderni, tra quelli da me conosciuti,  per cui la definizione di Maestro appare  appropriata.

IL NOSTRO ARCHIVIO

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Archivio 2010-2011

Tanto per cominciare : Che fare dopo il pensionamento:  come continuare il dialogo con i vecchi amici  e mantenere aperta una finestra sul mondo —- Come è cambiata la medicina:  Riflessioni sui mutamenti epocali della medicina negli ultimi cinquanta anni: specializzazioni e superspecializzazioni, progresso tecnologico, l’illusione  di onnipotenza, Big Pharma con i suoi meriti e demeriti, la evoluzione  di una disciplina dall’etica all’economia, la medicina difensivistica…..ed altro ancora—- Lettera sulla Geriatria : Da Greppi ed Antonini  fino ai pallidi epigoni dei giorni d’oggi, sulla base di una lunga ed appassionata esperienza personale, questo articolo ripercorre la storia della Geriatria italiana dagli entusiasmanti esordi alla  fatale  decadenza. Tra  il  collasso dei valori, l’imperante  ageismo e la  indifferenza totale delle istituzioni, si prefigura lo spettro prossimo venturo della vecchiaia abbandonata —- La buffa storia del preservativo: Tra il serio ed il faceto, in parte su base documentale, ma anche usando la fantasia, si descrivono le varie fogge  di questo umile ma prezioso oggetto,  a partire dai graffiti rupestri fino ai nostri giorni, passando per gli egiziani, i greci, i romani, i monaci medievali, Giacomo Casanova, il  “divin marchese”, l’industria della gomma, eccetera  eccetera. Una digressione burlesca che l’autore del blog si è permesso, poiché chi è stato un goliardo lo rimane per sempre —-  Gottinga in Abruzzo Citeriore (ricordo di un amico):  Dove si parla di un uomo libero e del  fallimento di un impossibile sogno —- Variazioni su una descrizione di Montaigne : Una novella  di Francesco  Iengo:  le surreali modalità di ingresso nella città di Gottinga —- Un ispettore generale a Gottinga:  Altra novella di Francesco Iengo, in cui si parla  della Facoltà di Lettere di  Gottinga e di improbabili e colorite sedute del Consiglio di Facoltà —- Riflessioni  sull’insegnamento  della medicina: Sulla crescente discrepanza tra una facoltà ingessata, sempre più degradata e pletorica e la  formazione di   medici  professionalmente  idonei  ad  affrontare le molteplici sfide di una disciplina in vertiginoso progresso —- Le ultime del ministro che piace tanto a Tinto Brass: Su alcuni exploit  del governo da operetta:  misfatti ed amenità di MaryStar, la  sexy ministra dall’aria intellettuale, abilitata all’avvocatura in quel di Reggio Calabria, Foro di manica larga —- La vecchiaia viagrizzata: La rivoluzione chimica ha protratto a tempo indeterminato – o quasi – l’attività sessuale dei vecchi.  Alcuni se ne avvalgono con misura e discrezione, altri, ammalati di onnipotenza, si rendono ridicoli agli occhi del mondo. E noi italiani, purtroppo, ne sappiamo qualcosa…

 

Archivio 2012-2013

Il valore della vecchiaia nel pensiero degli antichi:  Da Tito Maccio Plauto a Quinto Orazio Flacco, passando per Marco Tullio Cicerone, questo breve saggio ripercorre le idee che avevano sui vecchi e sulla vecchiaia questi grandi del pensiero antico: un ottimo esempio per comprendere che l’animo degli uomini, dopo duemila anni, non è mutato— I fattori di rischio cardiovascolare nei tempi della crisi: La scoperta dei fattori di rischio ha inaugurato la prevenzione in medicina: un affare multimilionario su cui BigPharma ha lucrato senza scrupoli. Adesso, in tempo di crisi, sarebbe il caso di pensare di più a cambiare lo stile di vita –Scientific cheating e ricerca clinica nella Facoltà di Medicina: Decadenza della ricerca clinica nelle università italiane. Trucchi e stratagemmi  accademici nel contesto del degrado morale della società civile –– Academic  nepotism:Prendendo le mosse da una coraggiosa denuncia di un medico ateniese sul nepotismo e le frodi accademiche della Grecia avviata al fallimento, si discute su quanto accade sotto il sole del Bel Paese —–  Ancora sui vecchi e sulla Geriatria : La vita si allunga, la vecchiaia diventa un business ed un problema economico. E’ tempo di muoversi verso un’etica nuova Etica e Geriatria: chiudiamo il dibattito —- Diventar medici: la dura legge del fai da te: la perdita del valore professionalizzante delle Facoltà di Medicina e la conseguente necessità del  “fai da te” per imparare davvero —- Il matrimonio nell’antica Roma:un saggio di L. Poma sulle  norme che regolavano l’istituzione del matrimonio presso i Romani, che potrebbero tornar buone anche nell’epoca moderna —-Internet e medicina:come la rete e l’uso dei calcolatori sta sconvolgendo la pratica medica – Adesso la diagnosi la farà il computer?: il programma Watson consente di porre con certezza molte diagnosi. Si va verso la scoparsa del medico clinico? —-   La tesi di laurea: una istituzione anacronistica? : quasi tutte le tesi sono scopiazzate. Val la pena mantenere in vita questaistituzione? —- Riduzione degli iscritti e qualità dell’insegnamento universitario: i laureati sono a spasso. Conviene ancora iscriversi all’università?—–  Il lato oscuro di BigPharma: i taroccamenti dei trials, il disease mongering ed altri comportamenti poco etici delle multinazionali del farmaco —- La follia di voler campare centanni:  i giornali danno risalto alle scoperte che consentono di allungare la vita, ma dimenticano di dire che oltre i 90 soltanto pochi, tra malattie e demenza,  se la passano bene—  Una riflessione sui concorsi di ammissione a medicina: la maggior parte degli idonei sono al nord, ma chi ci andrà nelle università del profondo Sud?—- Neruda, Bufalino e Rodari:entriamo nel 2014 con i versi dei poeti

Archivio 2014

Fino a che punto i trials sono attendibili? : una riflessione di Paolo Vercellini  sui mille trucchi dell’industria del farmaco  per mascherare i dati indesiderati delle sperimentazioni cliniche — La vecchiaia nel pensiero filosofico di Lucio Anneo Seneca:  sulla necessità di tornare alla saggezza degli antichi per superarle angosce dei tempi moderni  —- Il mitico REX : l’epopea del  grande Transatlantico, vincitore del Blue Ribbon  sulla rotta Genova-New York  —- La vera storia del preservativo :  evoluzione, significato ed aneddoti  sull’umile sacchetto da sempre al servizio dell’umanità  ——  Come battere i farmaci generici ed alzare i prezzi:  tutti i trucchi di Big Pharma   —– Gli  emarginati  del  sesso : una provocazione di Guido Ceronetti  e  riflessioni sul diritto alla sessualità ——- Berlusconi e gli anziani : sull’ageism dell’ex-cavaliere  ——  Pensieri e consigli per la terza età : un nuovo libro di Vittorio Nicita Mauro —- Raccolta di aforismi sulla vecchiaia  —— La medicina predittiva: solo progresso? : i  grandi vantaggi di individuare i fattori di rischio ( e se possibile di correggerli), ma attenzione a non farsi prendere la mano e passare la vita tra un check-up e l’altro —- Quando amore non mi riconoscerai (recensione) : una appassionante testimonianza sulla malattia di Alzheimer —–Su un articolo di Vera Schiavazzi : la vera età della vecchiaia —– La donna più vecchia del mondo – Opinioni sulla longevità : prendendo spunto da una notizia di cronaca si sottolineano i molti rischi della longevità estrema —- When you are old : una poesia di William Butler Yeats —- Fino a quando i vecchi devono/possono/vogliono esser curati : dibattito sulla opportunità delle terapie (specie eroiche) nei vecchi e sul diritto all’autodeterminazione

Archivio 2015
Decrescita felice : tre articoli su un tema che riguarda il futuro del genere umano —– Le scuole di specializzazione in medicinaLa vecchiaia al femminile di Eide Spedicato (recensione) —– Dieta e longevità : falsi miti e suggerimenti pratici —- Duilio Poggiolini : la triste fine del Re Mida della sanità —— Riflessioni semiserie sul Viagra Rosa : la pillola che farebbe tornare il desiderio alle frigide —-Gesualdo Bufalino: Poesia di Capodanno

Archivio 2016

San Francesco: Laudato si’ mio Signore —- Alzheimer: maneggiare con cura —- Alzheimer: ulteriori annotazioni —- Scientific cheating : Guardiamoci nelle palle degli occhi — Giorgio Cosmacini: Il malato racconta ma il medico deve ascoltare —- Umberto Eco: Riflessioni sul dolore —- Sugli ambigui rapporti tra Big Pharma ed Università —— Diete…. non vi sembra che si esageri? —– Paolo Vercellini: Dollars for Docs —- Gigi: Un terremoto in Giappone